Vincenzo Rezzuti

S'avanzano giorni più duri

Il tempo dilazionato e revocabile

già appare all'orizzonte.
Presto dovrai allacciare le scarpe
e ricacciare i cani ai cascinali:
le viscere dei pesci nel vento
si sono fatte fredde.
Brucia a stento la luce dei lupini.
Lo sguardo tuo la nebbia esplora:
il tempo dilazionato e revocabile
già appare all'orizzonte.

Laggiù l'amata ti sprofonda nella sabbia,
che le sale ai capelli tesi al vento,
le tronca la parola,
le comanda di tacere
la trova mortale
e proclive all'addio
dopo ogni amplesso.

Non ti guardare intorno.
Allacciati le scarpe.
Rimanda indietro i cani.
Getta in mare i pesci.
Spengi i lupini!

S'avanzano giorni più duri.

(Ingeborg Bachmann, Il tempo dilazionato, traduzione Maria Teresa Mandalari)

 

Ci sono poesie che scandiscono le epoche. Questa di Ingeborg Bachmann è più efficace, nel descrivere un periodo storico, di un tomo di storia contemporanea. Era finita da pochi anni la guerra, gli ex nazisti si erano trovati una nuova sistemazione politica e tutti avevano dimenticato. Se qualcuno aveva nutrito la speranza che le cose fossero cambiate nella sostanza, ora doveva rendersi conto che il futuro era diverso dal passato solo per ipocrisia. I carnefici di un tempo avevano imbiancato le loro case, e mettevano crocifissi ovunque. Indifferenti alle proprie vittime, ormai sepolte da un pezzo, avevano di nuovo vinto. Mentre in altre poesie la Bachmann esprime più direttamente questi concetti, qui è tutto implicito nei due versi bellissimi e atroci: “Il tempo dilazionato e revocabile / già appare all’orizzonte”. Se si sperava nel futuro, immaginando di vedere il sorgere di un nuovo mondo, ora c’era solo nebbia, e quel tempo non dato, dilazionato e revocabile, espropriato alle persone.
Non è un caso che la poesia più efficace sia quella più ermetica. Le ragioni della politica hanno in genere il sopravvento su quelle del cuore. L’unica possibile vendetta del cuore sta nell’ineffabile, nell’esprimere una verità assoluta e impotente, davanti alla quale, almeno per un attimo, tutti sono nudi, senza maschere.

La strada

“Che cosa vuoi fare?
Aiutarlo, papà. Voglio solo aiutarlo.
L’uomo si voltò a guardare la strada.
Papà, aveva solo fame. Adesso morirà.
Sarebbe morto comunque.
Ha tanta paura, papà.
L’uomo si accovacciò e guardò il bambino. Anche io ho paura, disse. Lo capisci? Anche io ho paura.
Il bambino non rispose. Rimase seduto lì a capo chino, scosso dai singhiozzi.
Non tocca a te preoccuparti di tutto.
Il bambino disse qualcosa che l’uomo non capì. Cosa?, disse.
Il bambino alzò gli occhi, il viso sporco e bagnato. Sì, invece, disse. Tocca a me.”
(Cormac McCarthy, La strada, traduzione di Martina Testa)

una scena del film tratto dal romanzo
una scena del film tratto dal romanzo

Nel suo romanzo “La strada”, Cormac McCarthy immagina il mondo dopo un disastro, probabilmente nucleare, che riporta l’umanità allo stato di mera sopravvivenza. La natura è morta, il sole è coperto da una nube perenne e i sopravvissuti possono solo cibarsi dei pochi cibi conservati, reliquie di una civiltà ormai scomparsa. Chi non riesce a trovarli, è destinato al cannibalismo, e alla perdita di ogni residuo di compassione. Tutto ciò che costituiva la vita precedente, è confinato nel dolore dei ricordi.

Non solo in questo straordinario romanzo, McCarthy è lo scrittore di una nuova apocalisse. L’uomo ha abbandonato Dio e la natura, ed è destinato per questo a perire in una lenta agonia. Dio e la natura non sono, per McCarthy, due entità separate, bensì sono i due aspetti dell’essere autentico, contrapposti al non essere generato dal male. Ed è proprio nella considerazione di ciò che il male è che McCarthy fonda il proprio umanesimo rovesciato: perché il diavolo per lui in realtà non esiste, e nemmeno esiste un male naturale di cui l’uomo sia soltanto vittima. Il male è nell’uomo, nella sua civiltà corrotta, nel suo non essere naturale, o per dirla con Pasolini, nell’avere perso il contatto magico con la natura.
Eppure, proprio dentro l’uomo, c’è qualcosa di grande. Non l’anima, di cui non avrebbe merito alcuno, bensì il senso etico, baluardo della civiltà autentica che si contrappone all’egoismo, fonte di ogni disgrazia umana e di ogni corruzione. L’uomo e il bambino protagonisti del romanzo portano con sé il fuoco, ma non è un fuoco fisico, bensì spirituale. Come il logos degli antichi, è sapienza ed è legge interiore, che occorre fare sopravvivere, perché se anche un solo uomo lo porterà, ci sarà ancora una speranza per l’intera umanità.

 

Vincenzo Rezzuti, novarese di nascita e bolognese di adozione, fa della scelta dell’eclettismo culturale una filosofia di vita. Informatico e project manager per mestiere, giocatore di scacchi, scrittore e poeta, pensa che per contrastare l’orbo pensiero specialistico occorra occuparsi di tutto, senza avere paura del proprio dilettantismo. Per SeBook ha recentemente pubblicato il romanzo “Gli errori di un samurai”. Altre sue opere sono un volume di racconti, “Chi parla troppo”, e due raccolte poetiche, “Poesie del re sottile” e “Del corpo, per il corpo”. In rete è presente con alcune opere web e con un blog filosofico – letterario (http://pensierinidellabuonanotte.wordpress.com).