Prisca Amorosco
Pentimento e Rinascita in Max Scheler
“L’asserzione che l’esperienza vissuta del mio io nel passato non esista affatto è esattamente tanto priva di senso quanto l’asserzione che non esista un sole del “mondo-ambiente” nel momento in cui non lo si veda.”
L’analisi scheleriana del pentimento, analisi che è articolata in maniera complessa lungo il corso dell’intera produzione del fenomenologo tedesco, prende le mosse da questa affermazione, pronunciata, si direbbe, contro la dottrina dell’epifenomenalismo, che vuole non esistenti i vissuti e le disposizioni psichiche passati.
Non che, per il Filosofo, essi permangano in un qualche spazio autonomo, dal quale vengano liberati mediante l’atto del ricordo -allo stesso modo come le esperienze attese non provengono da una mistica sfera futura-: i vissuti passati esistono nell’Io, sono parte di esso, tanto che bisogna parlare non di un Io del presente come dato di fatto fenomenico, ma piuttosto di un tutto dell’Io individuale, temporalmente indiviso, che si inscrive sullo sfondo di quella datità totale, nella quale si danno le esperienze vissute. Nell’esistenza non abbiamo a che fare con accadimenti che si dispongono in successione, ma con una totalità di senso suscettibile di cambiare di segno in ogni momento - passato, presente e futuro - non configurandosi come dimensioni distinte, ma come tre estensioni di un unico movimento.
La possibilità che gli è data di piegarsi sul proprio passato costituisce, allora, la libertà dell’uomo: pentirsi significa dire “sono stato io”, “sono stato così” con nuova forza; significa dare, a quel passato e a quell’essere stato, nuovo valore, una nuova direzione, nel quadro di quel che è ora; aprirlo a nuove possibilità.
Ma come fare?
Scheler dà un’indicazione precisa a tal riguardo, nell’affermare che “ricordare significa intraprendere un percorso di liberazione dall’oscura potenza dei contenuti del ricordo stesso.”
Ricordare, dunque. Impossibile non avvertire qualche eco freudiana nella valenza catartica che qui Scheler attribuisce alla memoria. Tuttavia, il Filosofo traspone tale idea, dal piano di una terapia psichica, a quello di una terapia dello spirito.
Esercitando sul nostro passato un giudizio – nel caso del pentimento, un giudizio di condanna – ne disponiamo secondo il nostro volere attuale. Il pentimento, nell’introdurvi nuovi contenuti, apre ad una logica nuova l’intera nostra esistenza.
Per comprendere come ciò sia possibile, bisogna che si consideri la fondamentale differenza tra lo scorrere dei fenomeni naturali e il procedere della nostra vita e cogliere le peculiarità di quest’ultimo. Coloro i quali sostengono che il pentimento sia l’inutile tentativo di fare in modo che il passato non sia mai avvenuto, ignorano che lo scorrere della vita umana è incomparabile al fluire naturale di un fiume -per cui il tempo è un uniforme continuo con una direzione determinata e nel quale nessuna parte, che si trovi dopo, può ripiegarsi sulla parte che si trova prima, per modificarla-; ignorano che il senso e la direzione della nostra vita sono nella nostra sfera di azione, sino a che non sia conclusa la vita stessa.
Mi pare utile ricordare, in proposito, la ripartizione della memoria operata ne Il formalismo, il grande capolavoro scheleriano.
Nel ricordo che il Filosofo denomina mediato, da un lato, si dà il contenuto del ricordo, dall’altro, viene vissuta proprio la qualità dell’atto stesso del ricordare. Si tratta del ricordo di avvenimenti specifici, di vissuti particolari, che si danno, cioè, non solo in una modalità percettiva, come contenuti, appunto, ma anche, al contempo, in quanto rappresentati e come meramente rappresentati.
Nel ricordo immediato, al contrario, il pensiero si volge totalmente al contenuto, che è inserito nella sfera dell’esser-passato, senza che venga vissuto come dato l’atto stesso del ricordare. Quando ricordiamo in modo immediato, cioè, vediamo nuovamente, dinanzi a noi, luoghi, persone, eventi del nostro passato e vediamo anche noi stessi in quel passato, ci vediamo osservare quei luoghi e quelle persone, esperire direttamente quegli eventi.
E’ questo il ricordo legato alla forma più alta di pentimento, poiché il suo oggetto non è un’azione, ma quell’Io parziale della nostra persona totale, da cui le azioni poterono nascere. Avviene, quindi, una identificazione con l’Io di allora, che apre la strada ad una riflessione sul comportamento generale che allora si aveva verso il mondo e sulla passata direzione di pensiero, volontà, amore e odio. Si tratta di un vivere e immanere nel passato, che ci rende possibile sapere non solo quanto abbiamo fatto, ma anche ciò che sarebbe potuto accadere, le nostre eventuali reazioni a circostanze che, di fatto, non si sono verificate, il nostro comportamento potenziale di allora. Tutto il nostro passato si fa in qualche modo presente.
Scheler richiama le parole con cui Schopenhauer sostiene che la più profonda posizione di pentimento non è espressa dalla formula “Ahi, cosa ho fatto”, ma dalla formula radicale “Ahimè, che uomo sono!”. “Tutto ciò di cui ancora possiamo pentirci è: l’essere stati allora un tale Io da poter compiere quell’azione.”
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, Scheler elabora una denuncia degli orrori del conflitto e una severa critica al capitalismo, una critica ancor più radicale di quella marxiana: la prospettiva proposta è quella di un riconoscimento che la vita ha una sua propria logica, che non è riconducibile né riducibile al fatto materiale. L’attacco al capitalismo ha per esito la proposizione del pentimento come condizione collettiva di liberazione, che può attuarsi solo per mezzo della scoperta del darsi dell’esperienza in un orizzonte di valore, in una dimensione assiologica. La colpa ed il rimorso, come si vede, non sono soltanto processi che riguardano l’uomo nella sua individualità, essi si presentano originariamente come fenomeni complessivi sociali e storici.
Il Filosofo parla di una “nostra colpa complessiva europea”, che si esprime e manifesta nel conflitto bellico e ne vede una possibile soluzione nella formazione di un nuovo sistema di politica estera, di cui il rimorso è la sola possibile premessa interiore, che “nessuna nuova saggezza giuridica, nessuna buona volontà di uomini di stato, per quanto buona sia, nessuna “rivoluzione” e nessun “uomo nuovo” possono sostituire”.
Il grande principio della solidarietà di tutti gli uomini, in responsabilità, colpa e merito si fonda sull’idea che questa corresponsabilità originaria sia tanto importante per l’esistenza di un soggetto morale, quanto lo sono le responsabilità del singolo rispetto alla sua propria condotta morale individuale. Il contenuto di questa corresponsabilità non è rappresentato solo da quegli effetti visibili, provocati dalle azioni che i singoli esercitano tra loro, direttamente o per il tramite di quei tessuti causali sociali, la cui trama lega i singoli l’un l’altro indirettamente, ma anche e soprattutto dalla coscienza che “anche tutto il mondo morale del passato e dell’avvenire, delle stelle e del cielo, potrebbe essere radicalmente diverso se “io” fossi “diverso” ”. Quegli effetti visibili, diretti o indiretti che siano, non aprono il nostro sguardo che su quei punti del cosmo morale per i quali possiamo conoscere certamente la nostra corresponsabilità. Non forniscono, cioè, il senso della sempre presente corresponsabilità, “il profondo senso, che le segrete leggi dell’eco dell’amore e dell’odio, e le leggi della loro riproduzione tramite l’infinità di tutti i moti di tutti i cuori finiti si compongono in un’armonia sempre diversa o in una disarmonia sempre differente, che vengono sentite e giudicate dall’orecchio di Dio solo quale unità indivisibile”.
Scheler mette in guardia, dunque, dall’errata interpretazione dell’insegnamento cristiano, secondo la quale, di fronte alla colpa altrui, dovremmo essere indulgenti ed esimerci dal giudicare. Significherebbe confinare quello che riteniamo il peccato dell’altro alla sua sola colpa, come se il suo universo morale rappresentasse quasi una monade senza finestre sul mio mondo morale. Alla piattezza di questa lettura, Scheler contrappone l’idea di una correità: non basta, di fronte all’errore del prossimo, ricordare come anch’io possa cadere nel peccato, occorre che io stesso mi veda parte di quell’ errore e riconosca il mio concorso in quella colpa.
La corresponsabilità non viene contratta con una promessa verso gli altri: essa è la premessa stessa alla possibilità di qualsiasi impegno.
Il rimorso è dunque riferito alla mia correità a ogni colpa, tanto a quella colpa tragica, in cui innocentemente caddi, assieme all’umanità, quanto a quella colpa colposa da me liberamente scelta; tanto alla colpa complessiva ed ereditaria delle comunità, delle famiglie, dei popoli e di tutta l’umanità, quanto alla mia colpa personale.
Trovo che questa idea scheleriana sia ben lontana da quel disilluso languore che si potrebbe credere travolga l’uomo, penosamente posto di fronte alla propria responsabilità. Con la fine della guerra, Scheler volge la propria ricerca al futuro. Come nota Vittorio d’Anna, da una proposta di riflessione, il pensiero dell’Autore si indirizza verso la progettazione. Alla denuncia degli orrori, dovrà seguire la costruzione. Il pentimento sarà allora la premessa a un’azione, che sia indirizzata da istanze superiori al particolarismo degli interessi. Il nostro rapporto con le cose deciderà del futuro.
L’umiltà, virtù delicatissima che si nasconde, che non fa mostra di sé, è sollecitudine verso tutte le cose; è una forma di amore, per il mondo, per Dio e per le sue creature; è riconoscimento del dono che è in ogni cosa, nel tempo, nella luce, nell’aria, nel mare, nel mio stesso corpo; è la condizione che sola apre la Storia al pentimento e alla rinascita.
Bibliografia delle fonti
Dell'Autore:
Torino, San Paolo, 1996
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Prisca Amoroso
Nata a Lanciano, si è laureata in Filosofia presso l'Università di Bologna con una tesi in Storia della filosofia contemporanea su Pentimento e Memoria in Max Sheler, avendo come riferimento una interpretazione della denuncia scheleriana del capitalismo come fondantesi sull'idea che l'esperienza collettiva si determini, prima che in strutture obiettive – economiche, sociali, istituzionali – in modalità del darsi dell'esperienza in vissuti essenziali, non psicologici. Specializzanda in Scienze Filosofiche presso l'Università di Bologna, lavora alla fondazione della Rivista universitaria filosofica Il 38.