Lino Carriero
Ragione e sentimento nell’uomo, diverso dall’animale, secondo il pensiero di Max Scheler
Nel pensiero che ha dominato la civiltà occidentale, sempre dicotomicamente sospesa nel conflitto del Bene con il Male, le qualità, umane, della capacità cosciente di provare ragione e sentimenti sono state, anch’esse, troppo spesso vissute su un piano oppositivo. Forse anche per una certa sospettosità cattolica, la ragione è stata intesa come lo strumento che troppo oltre avrebbe condotto la libertà, mentre la passione troppo in là il piacere distogliendo l’essere dal dovere. Non l’una o l’altra sono state favorite o ostacolate, bensì entrambe, proprio nella loro massima ed efficace espressione. Quel livello per cui l’uomo, attraverso l’esercizio di entrambe, comprendendo e sentendo a modo proprio, metterebbe a “rischio” con la propria individualità l’ordinato consesso sociale. Certamente, per la formazione della nostra civiltà, in Occidente si è favorito un certo concetto di ragione piuttosto che del piacere, finendo così per far pagare all’uomo civile il prezzo di aver l’una (incompleta della passione) come surrogato dell’altra, e viceversa per contrasto. Ragione e sentimento, come yin e yang, invece non dovrebbe far temere nulla all’essere, e alla società, in quanto la loro apparente contrapposizione si equilibra da sola nell’esercizio di entrambe. Tuttavia seppur armonizzati, gli effetti combinati dell’una e dell’altra sono un potente volano di evoluzione dell’essere umano, anche nella loro espressione più controversa. Possiamo citare l’intuizione di Freud riguardo alla concezione dell’essere adulto simile all’essere civilizzato, tale per cui la rinuncia all’incontrollabilità del piacere sarebbe a garanzia della civiltà, a garanzia della differenza stessa tra l’uomo (essere razionale) e l’animale (essere istintuale), tra i “bruti” e gli uomini di “virtute e conoscenza”. Benchè per la Psichiatria un uomo che si lasci immolare sulla croce per redimere i peccati dell’umanità, credendo di essere il Figlio di Dio, sollevi più di una perplessità, l’esempio della “logica passione” di Cristo ne è una testimonianza storica: l’amore alla base del suo insegnamento non riflette altro che l’armonia dell’incontro (adulto e allo stesso tempo “puer”) tra sentimento e ragione. “Ragione e sentimento” è il noto titolo dell’opera di Jane Austin, da cui Ang Lee ne ha tratto lo splendido film con Emma Thomson. Entrambe, disarticolate tra loro, condurrebbero l’uomo all’infelicità.
Non sembra esser stato così secondo le filosofie orientali, per le quali entrambe, e non prima l’una e poi l’altra, concorrerebbero alla formazione e alla realizzazione di quell’essenza che farebbe la differenza tra l’uomo e l’animale (il quale le vivrebbe entrambe, indifferenziate, indifferentemente come aspetti del proprio esser secondo natura). Non sembra esser così neppure leggendo le parole espresse dal filosofo Max Scheler, in La posizione dell’uomo nel cosmo. Se ragione vuol essere un sinonimo di coscienza evoluta rispetto alla passione, che più accomunerebbe l’uomo all’animale, allora si dovrebbe accettare l’ipotesi che il progresso dell’umanità si andrebbe dirigendo verso un evoluzionismo darwiniano, a scapito della possibilità, tutta naturale, del piacere. In effetti, a sentire Z. Baumann, non stiamo andando esattamente da nessuna parte; la società sempre più liquida sta perdendo ogni tipo di direzione, poiché sta smarrendo, scivolando, da quel mondo in cui Heidegger almeno poneva la manifestazione presente dell’essere: Dasein, l’esser-con nel mondo. Secondo Scheler, l’uomo nel mondo e del mondo, es-posto, per sua natura, “oltre” nel cosmo (fr. Eraclito), ri-troverebbe la propria essenza in una terza qualità data dal superamento di passione e ragione: ossia lo spirito (cui Darwin, nel suo evoluzionismo, non era interessato).
Tratto, dunque dal II capitolo – La differenza essenziale fra l’uomo e l’animale – de La posizione dell’uomo nel cosmo[1], riportiamo le parole di Max Scheler a tal riguardo.
“A questo punto s’impone necessariamente quella che risulta ora come la questione determinante per tutta la nostra trattazione: se è vero che l’animale possiede già l’intelligenza, ha senso allora supporre ancora qualcosa di più di una mera differenza di grado fra l’uomo e l’animale? Esiste ancora una differenza essenziale? O, in altri termini: è rintracciabile nell’uomo qualcosa di completamente nuovo rispetto a tutti i diversi livelli essenziali della vita psichica fin qui considerati? Sussiste ancora in lui qualcosa che gli competa in modo esclusivo? Qualcosa cioè che non venga esaurito o non sia riconducibile all’intelligenza e alla capacità di scelta? Le diverse opinioni in merito a questo punto divergono nella maniera più assoluta. Alcuni intendono riservare l’intelligenza e la capacità di scelta solo all’uomo, negandole nella maniera più assoluta all’animale. In questo modo riescono certamente a riaffermare una differenza essenziale, ma essa viene individuata proprio là dove a mio avviso sicuramente non c’è. Gli altri invece, e in particolare tutti gli evoluzionisti della scuola di Darwin e Lamark, proprio partendo dal giusto presupposto che anche l’animale possiede l’intelligenza, arrivano però a negare una qualsiasi differenza ultima fra l’uomo e l’animale, e così facendo si riallacciano, in qualche modo, a quella grande teoria unitaria dell’uomo che viene designata comunemente come teoria dell’homo faber, e in tal modo viene naturalmente negata l’esistenza di un essere metafisico e la possibilità di una metafisica dell’uomo, vale a dire viene negata l’esistenza di un qualche rapporto distintivo essenziale dell’uomo nei confronti del resto del mondo. Per quanto mi riguarda io rifiuto nella maniera più categorica entrambe queste teorie e affermo invece la tesi secondo cui l’essenza dell’uomo, e ciò che si può caratterizzare come la sua “posizione particolare”, consiste in un carattere posto molto al di sopra di ciò che viene generalmente inteso con i termini di “intelligenza” e “capacità di scelta”, qualcosa che non può essere in nessun caso raggiunto neppure immaginando d’incrementare quantitativamente all’infinito l’intelligenza e la capacità di scelta. Altrettanto errato e riduttivo sarebbe considerare la novità che rende l’uomo tale, solo come un nuovo stadio essenziale di quelle facoltà e funzioni appartenenti alla sfera psichica e vitale che risultano ancora di competenza della “psicologia”, una sorta di nuovo stadio da aggiungere a quelli già considerati dell’impulso dell’affezione vitale, dell’istinto, della memoria associativa, dell’intelligenza e della scelta. Il nuovo principio che rende l’uomo tale si trova infatti al di fuori di tutto ciò che possiamo generalmente definire vita e psichicamente-interno e vitalmente-esterno. Ciò che caratterizza l’uomo è piuttosto un principio opposto a tutta la vita nel suo complesso, nel senso che tale principio non può esser considerato come frutto di una “evoluzione naturale della vita”, essendo riconducibile, semmai, solo al principio superiore di tutte le cose, allo stesso principio di cui anche la vita non è che una manifestazione parziale. Già i greci hanno chiamato tale principio “ragione”. Ma a proposito di questa X noi vogliamo usare un termine possibilmente ancora più ampio e capace di includere oltre al concetto di ragione, anche quello di pensiero ideativo, come quello di un tipo particolare d’intuizione (l’intuizione dei proto fenomeni o dei contenuti essenziali) e poi una determinata classe di atti emozionali e volitivi che a dire il vero non è stata ancora ben caratterizzata ma che comunque comprende sicuramente la bontà, l’amore, il pentimento, la riverenza, ecc.. Per una tale X preferiamo allora usare il termine “spirito”, anche se il centro degli atti in cui tale spirito si manifesta concretamente nell’essere finito verrà a sua volta indicato con il termine “persona”. Ed è tale centro personale che si contrappone a tutti a tutti i centri funzionali alla vita, e che, considerati internamente, possono essere designati anche come centri “psichici”.
Che cos’è però questo spirito?
Questo nuovo principio così decisivo? Raramente si è fatta così tanta confusione attorno ad un termine, un termine sul quale solo pochi hanno in mente qualcosa di preciso. Se poniamo al vertice del concetto di spirito una funzione del sapere, o meglio quel tipo particolare di sapere che può essere dato solo grazie allo spirito, allora la determinazione fondamentale d’un essere “spirituale” consiste nella capacità esistenziale di emanciparsi, liberarsi e svincolarsi che esso, o meglio il centro della sua esistenza, possiede nei confronti del potere, della pressione e della dipendenza dall’organico, dalla vita e da quanto tutto essa abbraccia, un’emancipazione che deve valere anche nei confronti della propria intelligenza pulsionale. Il carattere principale di un tale essere “spirituale” (non più legato alla pulsione e all’ambiente-proprio) è allora quello di essere “libero dall’ambiente-proprio”, il che significa “aperto al mondo”: un tale essere ha il “mondo”. L’uomo è in grado di elevare ad “oggetti” proprio quei centri in cui invece l’animale è ancora estaticamente immerso e che anche all’uomo sono dati originariamente come semplici centri di reazione e di resistenza nei confronti dell’ambiente proprio. In tal modo l’uomo è in grado, in linea di principio, di comprendere l’essenza stessa di questi “oggetti”, il che vuol dire che li può comprendere mettendo fra parentesi quella limitazione di rilevanza, a cui è necessariamente sottoposto questo mondo di oggetti e la sua datità, ad opera del sistema pulsional-vitale e delle funzioni e organi sensibili che ne rappresentano il prolungamento. Lo spirito è perciò capacità di oggettivazione, capacità di determinazione, attraverso l’essenza delle cose stesse. L’uomo è allora quel portatore dello spirito il cui rapporto principale con la realtà, al di fuori di sé, si è addirittura dinamicamente rovesciato rispetto a quello dell’animale.
[1] Intendendo la posizione dell’essere fra terra e cielo.
DIRE LA VERITA’: PARRESIA, M. Foucault e l’ I Ching.
La verità, aletheia - ciò che non è nascosto - e episteme – “che si tiene su da sé” - e “La Verità interiore”, 61° esagramma dell’I Ching, il Libro dei Mutamenti.
L’arte di esprimere la propria veridicità, in quanto espressione autenticamente ap-propriata che non necessita di esser sostenuta da autorità esteriormente pre-stabilite, come avviene per l’esser-Si di Heidegger[i] e per i “porci e pesci” del 61° ex.[ii](leggere le due note in finale del testo).
MICHEL FOUCAULT A LEZIONE DI GRECO
Una serie di conferenze che il filosofo francese tenne a Berkeley riportate da U. Galimberti.[1]
Si può dire sempre la verità e quali doveri e quali doveri essa ci impone? Non è solo in gioco la sua forma logica ma anche la capacità e la forza di esibirla. Noto è l’esempio di Socrate. E di Confucio: “Ci sono due errori che si possono fare lungo la via verso la verità: non andare fino in fondo, e non iniziare”.
C'è una virtù che ha fatto la sua comparsa nel V secolo avanti Cristo e di cui si sono perse le tracce nel V secolo dopo Cristo. Il suo nome è parresia. Il suo significato è: "Dire la verità". Ce ne dà notizia Michel Foucault in una serie di conferenze tenute all'Università californiana di Berkeley nel 1983, un anno prima di morire. Oggi queste conferenze sono raccolte in un libro: Discorso e verità nella Grecia antica (Donzelli) aperto da un'ottima introduzione di Remo Bodei che ne parla come di un "libro sulla libertà di parola. Un grande frammento, in sé compiuto, di un vasto e ambizioso progetto a cui Foucault ha dedicato i suoi ultimi anni di vita affrontando, contestualmente, il problema del sorgere dell'attitudine critica nelle filosofie dell'Occidente e quello di un'etica della verità". Verità è la parola chiave della filosofia, è il problema intorno a cui tutta la ricerca filosofica si affaccenda dal giorno in cui nacque prendendo congedo dal mito e dalla religione. Anche la religione, infatti, ritiene di dire la verità, ma il fondamento della sua verità risiede nell'autorità di chi la enuncia, mentre la filosofia cerca una verità capace di stare in piedi da sola, senza il conforto di alcuna autorità. I filosofi greci chiamarono questa loro verità episteme, una parola che viene resa in latino con scientia e in italiano con scienza. Ma, così tradotta, la parola perde il suo significato originario che è poi quello che risulta dal verbo istemi che vuol dire "sto" e da epi che vuol dire "su". Episteme vuol dire allora "ciò che sta su", ciò che si impone da sé, e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi all'autorità di chi parla come accade nel linguaggio religioso, né alla persuasione seduttiva a cui ricorre il dire retorico, né alla mozione degli affetti come accade al linguaggio poetico. Ma intorno alla "verità" sorgono subito due problemi: il primo è quello di stabilire i criteri che presiedono alle affermazioni vere e ai giudizi corretti e a ciò provvede la "logica", il secondo è quello di dire la verità, dove in gioco non è la correttezza formale del discorso, ma il diritto o il dovere di dirlo. Qui sorgono subito questioni del tipo: chi è in grado di dire la verità? Quali requisiti deve avere chi se ne sente abilitato? Su quali argomenti è importante dire la verità? Sulla natura? Sulla città? Sui costumi? Sull'uomo? Quali sono gli effetti positivi o negativi per i governanti o per i governati? Che rapporto c'è tra dire la verità e l'esercizio del potere?
Il problema qui non è di stabilire come essere sicuri che una determinata proposizione sia vera (su ciò ha insistito la tradizione filosofica occidentale, producendosi in quella che Foucault chiama "analitica della verità"), ma di sapere chi è capace di dire la verità. Che importanza ha per il singolo e per la società avere individui capaci di dire la verità? Come fare per riconoscerli? Dove in gioco non è la struttura logica della verità, ma la capacità e la forza di dirla. In tutto questo Foucault vede l'origine di ciò che in Occidente si chiama critica e che ha in Socrate il suo primo grande esempio.
Qui la filosofia si salda subito con la politica, l'una e l'altra nate insieme in quella Grecia del V secolo avanti Cristo, quando si contrappone alla parola autoritaria il dialogo filosofico in cui si confrontano le opinioni dei partecipanti, e alla tirannide la democrazia dove nell'agorà si confrontano le opinioni dei cittadini. La democrazia ateniese fu definita in modo del tutto esplicito come una costituzione (politeia) che garantisce: l'isegoria che è il diritto di parola, l'isonomia che è il diritto per tutti di partecipare all' esercizio del potere, e la parresia che è il diritto-dovere di dire la verità.
La parola parresia compare per la prima volta in Euripide (V secolo avanti Cristo), ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici del V secolo dopo Cristo, e per l'ultima volta in Giovanni Crisostomo. Da allora se ne perdono le tracce e, con le tracce, anche il coraggio di "dire la verità".
Bravo chi corre il rischio di essere punito.
Ma perché Foucault parla di coraggio? Gli antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorre "dire tutto" ciò che si ha in mente. La stessa etimologia della parola parresia rinvia a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto). Nella parresia si suppone che non ci sia differenza tra ciò che uno pensa e ciò che dice. L'esatto contrario della virtù di Ulisse che i greci chiamavano phronesis e noi, scorrettamente, ma forse coerentemente con la nostra indole, traduciamo con astuzia.
Ma dire tutto non sempre è un pregio. Platone ad esempio ritiene pericoloso per una buona democrazia rivolgersi ai propri concittadini e dir loro qualunque cosa anche la più stupida o la più offensiva che viene in mente. Questo cattivo uso della parresia è menzionato di frequente nella letteratura cristiana dove si indica, come rimedio, il silenzio. Per un corretto impiego della parresia è necessario che chi vi ricorre abbia delle qualità morali e soprattutto il coraggio di correre un rischio o un pericolo conseguente a ciò che dice. Buoni saranno allora quei consiglieri del sovrano se, dicendo la verità, corrono il rischio di essere puniti, esiliati o uccisi, così buono sarà quel governante che, dicendo ciò che ha davvero in mente, rischia di perdere la popolarità, la maggioranza, il consenso.
Usare la parresia, dire la verità, quando non diventa un gioco di vita e di morte come nel caso di Socrate, resta pur sempre una sfida al potere in cui Foucault vede l'origine dell'esercizio della critica. Per il greco antico questo esercizio è autentico solo quando chi lo esercita corre qualche rischio, in caso contrario è cattiva parresia, un facile gioco in cui ciò che si esprime non è tanto la verità quanto la propria irritazione che, non prevedendo costi, può essere detta gratuita.
Ma ognuno sa, che oltre agli interlocutori esterni, ciascuno ha un interlocutore interno a cui dire la verità. Qui la critica diventa "autocritica", capacità di dire la verità a se stessi, di scandagliare la propria ombra, le cantine delle propria anima, in linea con il messaggio dell' oracolo di Delfi: "Conosci te stesso". Forse tutte le pratiche psicoanalitiche, con la complicazione dei loro linguaggi, non hanno ancora raggiunto la semplicità di questo messaggio a cui ci conduce il buon uso della parresia: dire a se stessi, almeno a se stessi, la verità.
Si concentrano così in una parola semplice una serie di virtù morali e civili a cui dovrebbero attenersi gli abitanti della città e soprattutto chi li governa. Chi pratica la parresia dimostra infatti di avere uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la vita attraverso il rischio e il pericolo, una comunicazione autentica con gli altri e con se stessi attraverso la critica e l'autocritica, un significativo rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere di dire la verità. Nasce allora quel cittadino che è libero perché sceglie di parlar franco invece di irretire l'interlocutore con gli inganni della persuasione, sceglie la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio della vita invece della sicurezza, la critica invece dell'adulazione, il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell'apatia morale.
Ma da noi vincono le mille astuzie di Odisseo.
Chissà se abbiamo perso queste virtù perché abbiamo perso la parola "parresia", o se abbiamo perso la parola perché non si riferiva più a nulla o a nessuno. Nel gioco intrecciato tra "le parole e le cose", a cui Foucault ci ha abituato, parresia segnala un nodo. Provare a scioglierlo potrebbe migliorare la relazione tra gli uomini e la loro condizione civile. Ma non abbiamo la minima speranza. Da noi ha fatto scuola l'Odissea con il resoconto delle mille astuzie del suo eroe, non L'apologia di Socrate con la parresia del suo nobile testimone.
V.I.T.R.I.O.L.U.M.
Michel Foucault introduce il concetto di episteme in Le parole e le cose. L’argomento fondamentale della sua interrogazione sono i codici fondamentali che stanno alla base di una cultura, che influenzano la nostra esperienza e il nostro modo di pensare.
L’ispirazione a scrivere Le parole e le cose (1966), come spiegato nell’introduzione, era venuta a Foucault dalla lettura di un racconto di Borges, nel quale lo scrittore argentino fa riferimento a "una certa enciclopedia cinese" in cui "gli animali si dividono in: a) appartenenti all'Imperatore; b) imbalsamati; c) addomesticati; d) maialini da latte; e) sirene; f) favolosi; g) cani in libertà; h) inclusi nella presente classificazione; i) che si agitano follemente; j) innumerevoli; k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello; l) et coetera; m) che fanno l'amore; n) che da lontano sembrano mosche". La stranezza di questa classificazione suggerisce a Foucault, attraverso "il fascino esotico di un altro pensiero, il limite del nostro". In altri termini, l’enciclopedia di Borges può essere assunta come simbolo di schemi altri di categorizzazione. Nasce allora, naturalmente, la domanda: quali sono i confini del nostro modo di pensare? In che modo noi, occidentali moderni, ordiniamo i fenomeni? Argomento fondamentale di questo volume sono i "codici fondamentali di una cultura che impongono un ordine alla nostra esperienza". L'archeologia della scienze umane si sforza di studiare la struttura dei discorsi delle varie discipline che hanno preteso di avanzare teorie sulla società, sugli individui e sul linguaggio. Come sostiene Foucault "una tale analisi non appartiene alla storia delle idee o delle scienze: è piuttosto uno studio che cerca di ritrovare ciò che ha reso possibile conoscenza e teoria; sulla base di quale spazio d'ordine il sapere si è costituito, sullo sfondo di quale a priori storico [...] certe idee sono potute apparire, certe scienze hanno potuto costituirsi, certe esperienze riflettersi in filosofie, certe razionalità formarsi per, forse subito, dissolversi e svanire". Per far questo Foucault introduce la nozione di episteme, cioè un a priori storico in questo senso assimilabile ai codici fondamentali di una cultura: "l’episteme non è una forma di conoscenza o un tipo di razionalità che, attraversando le scienze più diverse, manifesterebbe l’unità sovrana di un soggetto, di uno spirito o di un’epoca, è piuttosto l’insieme delle relazioni che, in una data epoca, si possono scoprire tra le scienze quando le si analizza a livello delle regolarità discorsive".
Platone espone la sua teoria della conoscenza nel dialogo La Repubblica suddividendo tutti i vari livelli di conoscenza nel modo seguente:
conoscenza sensibile o opinione (δόξα)
immaginazione credenza
(εἰκασία) (πίστις)
______________________________
conoscenza intelligibile o scienza (ἐπιστήμη)
pensiero discorsivo intellezione
(διάνοια) (νόησις)
L’epistème per Platone rappresenta la forma più certa di conoscenza, che assicura un sapere vero e universale. Questo può essere ottenuto in due modi: tramite ragionamento (diànoia) o intuizione (noesis), che sono a ogni modo complementari tra loro, e delle quali però la seconda è superiore alla prima. Si tratta infatti di un sapere interiorizzato, non trasmissibile a parole, che ha il suo fondamento, ma anche il suo limite, nella sfera ontologica e intuitiva delle idee. Per questo è accessibile solo a pochi, ma potenzialmente a tutti. Questo processo di progressiva diffusione ed esternalizzazione della verità (aletheia - ciò che non è nascosto) sostenibile (episteme “che si tiene su da sola”) è la finalità che propone e si ripropone anche il Counseling esistenziale. Ed è straordinario come ciò possa coincidere con la descrizione che ne viene data nel 61° esagramma del Libro dei Mutamenti – La verità interiore - , nel quale viene proprio descritto un tale processo di “cura del proprio essere autentico” (quindi vero), progressivamente e sostanzialmente sostenuto dalla consapevolezza. Pochi o molti che siano, coloro che vi si accostano, di sicuro non sono quegli esseri che, ne La Sentenza del 61° esagramma, vengono definiti come: porci e pesci. Come già con lo scrittore Borges e il suo fantasioso bestiario cinese, anche a noi, da qui in poi, ci sentirete spesso parlare di alcuni degli innumerevoli animali che popolano l’I Ching, l’oracolo dei Mutamenti: porci, pesci, e poi gru, delfini (e ancora draghi, bianchi cavalli alati, tartarughe magiche, vacche, camaleonti, ecc.). Come si evince dalla seconda nota finale, queste due figure animali, similmente ai bruti dell’Odisseo dantesco, hanno sia un’immagine dispregiativa in quanto creature di basso livello nel mondo animale e quindi meno in grado di trascendere dalla loro inferiorità materiale e sopratutto pulsionale, ma anche quella di “creature innocenti” in quanto perfettamente e automaticamente integrate nel sistema naturale da non aver bisogno di una coscienza per il qui e ora, capace di andare-oltre, come per l’essere umano, creatura invece potenzialmente capace di trascendere la fisicità dell’esser animale (a partire dall’essere “anche e necessariamente” porci e pesci) verso l’innalzamento di sé e l’avvicinamento alla possibile propria natura spirituale.
Fatti non foste per esser bruti ma per seguir virtute et conoscenza.
Nella descrizione dell’esagramma si accenna ad un centro vuoto come della cavità di un uovo e nella seconda linea si allude alla tenera immagine di un pulcino che accorre al richiamo della madre-gru (come di una verità interiormente intrinseca).
Esternandola all’alterità, anche la prassi esistenziale dell’I Ching sembra co-stringere a dire la verità (che nasce come interiore) parresia (Παρρησὶα), proprio attraverso una dinamica dell’alternanza tra (διάνοια) - pensiero discorsivo (nel farsi pieno) tra l’Io e il testo del responso oracolare e l’Io e il counselor - e (νόησις) – intuizione (nel farsi vuoto). Esso con-stringe la nostra verità accostandola, mettendola in e-videnza, a confronto, con le altre verità degli altri (per Adamo, nell’Eden, vi era solo la verità di Dio).
Dire la verità è possibile a condizione-di, assumersi il rischio-di, riconoscere l’esistenza in noi della finzione (non nascondere e non nascondersi). La finzione di coloro, porci e pesci, la cui coscienza, se così si può definire, galleggia sulla mota in cui sguazzano i loro corpi animali (bruti), le quali esistenze altrove di quella bassa realtà non tendono: res che ex-sistens e ex-tendens. Finzione che può anche ben riguardare qualunque genere di analista dell’essere umano.
Dire, quindi, la verità: la verità che mette a repentaglio le presunte certezze.
Per questo essa non è accessibile facilmente a tutti. Pochi o molti che siano di sicuro non sono quegli esseri che ne La Sentenza del 61° esagramma dell’I Ching vengono definiti come porci e pesci. Come si evince dalla seconda nota finale, essi hanno sia un’immagine dispregiativa in quanto creature più in basso nel mondo animale e quindi meno in grado di trascendere dalla loro inferiorità materiale e sopratutto pulsionale, ma anche l’immagine di creature innocenti in quanto perfettamente e automaticamente integrate nel sistema naturale da non aver bisogno di una coscienza come per l’essere umano, creatura invece potenzialmente capace di trascendere la propria fisicità dell’esser animale (a partire dall’essere “anche e necessariamente” porci e pesci) verso l’innalzamento di sé e l’avvicinamento alla possibile propria natura spirituale. Nella descrizione dell’esagramma si accenna ad un centro vuoto come della cavità di un uovo e nella seconda linea si allude alla tenera immagine di un pulcino che accorre al richiamo della madre (come di una verità interiormente intrinseca). Vuoto necessario ad accogliere la verità come influsso che vi penetra richiamato da una porta aperta, appositamente posta nell’anima intesa come luogo superiormente libero, e libero da pre-giudizi (Ciò allude a un cuore libero da pregiudizi e capace di accogliere la verità[1]).
Esternandola verso, e in favore, dell’alterità, l’I Ching sembrerebbe co-stringere il consultante a dire la verità (interiore) parresia (Παρρησὶα), come manifestazione virtuosa dell’essere (virtute et conoscenza). Dire la verità, infatti, sarebbe così, umilmente, come riconoscere l’esistenza del suo polo opposto - la finzione - : di coloro cui, porci e pesci, la coscienza, se così si può definire, galleggia sulla mota in cui sguazzano i loro corpi. Finzione che può ben guardare anche il consulente, la cui possibile mota, a confronto della loro, può apparire sofisticata quanto la preziosa cioccolata di Modica. Dire la verità: la verità interiore, a priori occulta, del V.I.T.R.I.O.L.U.M Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem Veram Medicinam “Visita l’interno della terra, e rettificando troverai nella pietra nascosta la vera medicina.” In questo breve testo si presenta l’inizio del lavoro alchemico inteso come presa di coscienza e innalzamento dell’uomo fino a rivelarne la natura trascendente, innalzata trascendendo la fisicità dell’esser, “anche e necessariamente” porci e pesci.
Ne La verità interiore la parresia è parusia, quando è disvelamento della sempre presente verità interiore, cui diamo credito solo quando ci conviene o misconosciamo quando ci è sgradita in favore di una gradita e omologante verità metafisicamente adottata.
…Se vi sono pensieri reconditi questo è inquietante[2].
Questa sola verità ha il potere di costituirsi come Giudizio finale, avvento del vero che riconduce all’origine e all’originale. Verità è esser costretti ad essere e accettare di esser gettati al di là (della propria solitudine infantile e della finzione di sé come di un mondo intero unicamente ri-volto a sé). In porci e pesci non c’è coscienza della verità bensì forse di un’individualità pulsionale (anch’essa a suo modo vera, ma vera per sé sola), benché sia ugualmente presente l’innocenza iniziale degli animali che non hanno la necessità di ri-conoscersi come tali nel mondo naturale in cui spontaneamente sono.
Di una tale verità si dice che: “Porci e pesci sono gli animali meno spirituali. Il fatto che nemmeno esse restino insensibili mostra il grande potere della verità”[3].
In questo senso il pesce è vero solo già in quanto pesce, ma l’uomo oltre all’essere umano può esser vero, trascendendo il proprio essere della specie animale, divenendo anche spiritualmente anima-to, anche già “soltanto” nell’esser cosciente dell’esistenza dell’amore. Ma la verità può ri-ferire di sé, questo è il rischio che la rende poco attraente, quasi fosse una burrasca di mare. In un’altra interpretazione dell’esagramma si afferma che non si tratterebbe di porci e pesci, ma di pesci porcini, ossia di delfini. I delfini in mare aperto sono fidati annunciatori di burrasca. Il vento che si avvicina è preannunciato da segni sicuri, che inducono i delfini a salire a galla. “Così la verità interiore è il mezzo per comprendere il futuro”[4], come della significatività di eventi prossimi (Ereignis) nel reciproco ad-venire incontro. Poiché, come afferma Foucault, che nel dire la verità vede l’origine dell’esercizio della critica, la parresia espone (come la barca alla burrasca) alla critica di sé come soggetto capace non solo di errore ma di finzione. È in questo senso che la ricerca sul senso dell’essere si fa, a partire da questo momento, indagine sulla verità dell’essere, cioè sull’essere inteso come a-létheia, nascosto e, svelato, portato a galla come i delfini dall’influsso del vento come dall’influenza della verità. La precedente dizione greca è composta da "alfa privativa" che indica appunto la negazione, e dalla radice della parola léthe (oblio), presente anche nel verbo lantháno significante "nascondere". In quanto alétheia, quindi, l’essere si ri-vela (termine che contiene in sé una contraddizione interna: manifestarsi celandosi) come un uscir fuori dall’oblio e dall’essere nascosto; e tuttavia il termine primo di questa dialettica resta pur sempre l’oblio, il ritrarsi dell’essere a ogni sua rappresentazione nell’ente come riportato da Heidegger in Essere e Tempo. E ancora, riguardo alla capacità di una simile verità di essere autorevole, episteme, di tenersi su da sola solidamente e non puntellandola con sostegni di altra natura da sé, sempre dalla spiegazione della I linea dell’esagramma, riportiamo che: “Se invece si volessero coltivare rapporti segreti di natura speciale, questo ci priverebbe dell’indipendenza interiore; e quanto più si facesse affidamento sull’appoggio altrui, tanto più si finirebbe in inquietudine e preoccupazione, cagionate dal dubbio se questi legami segreti siano in realtà durevoli. Così si perde la pace interna e forza della verità interiore”.
In conclusione, Michel Foucault introduce il concetto di episteme in Le parole e le cose. L’argomento fondamentale della sua interrogazione sono i codici fondamentali che stanno alla base di una cultura, che influenzano la nostra esperienza e il nostro modo di pensare. Mentre, similmente, la spiegazione della III linea dell’esagramma, nella sua parte finale, afferma che:
“…Le parole nascono vicine e divengono visibili da lontano. Parole e opere sono il cardine della porta del nobile e la molla della sua balestra.. Muovendosi, questo cardine e questa molla arrecano onore o onta. Con le parole e le opere il nobile muove cielo e terra. Non è forse necessario, allora, essere prudenti?”[5]
Riguardo alla relazione tra la verità e l’essere, il dire la verità e il counseling esistenziale che di ciò ha “cura”, potremmo dire, senza necessità di aggiunger altro (semmai lo sottolineiamo), che:
Egli possiede verità che avvince [episteme].
Nessuna macchia.
Qui è raffigurato il signore che tiene tutto unito con la forza della sua natura. Solo se la forza del suo carattere è tanto grande da poter influire su tutti coloro che gli sono soggetti, egli è così come deve essere. La forza di suggestione deve emanare dal sovrano. Essa collegherà e unirà tutti i suoi uomini. Senza questa forza centrale ogni unione esteriore è solo menzogna e va in frantumi nel momento decisivo.[6]
Dire la verità (come atto, “cura”, che tende a tale scopo) è disvelamento dell’autentico dell’essere, ponendola – l’essere – già come “questione” iniziale della consapevolezza riguardo all’essere stesso. Non a caso Heidegger pone una simile questione nell’incipit stesso di Essere e tempo. Nell’I Ching (La sentenza del 27° esagramma[7]) viene riportato che Mencio, riguardo alla valutazione del valore autentico di un uomo, dice: “Quando si vuol riconoscere se qualcuno è capace o inetto, basta guardare a quale parte del suo essere egli dà particolarmente importanza. Il corpo ha parti nobili e parti ignobili, parti importanti e parti insignificanti. Non bisogna danneggiare ciò che è importante per amore dell’insignificante e ciò che è nobile per amore dell’ignobile. Chi cura le parti insignificanti del suo essere è un uomo insignificante. Chi cura le parti nobili del suo essere è un uomo nobile”. Ora, prima di entrare nel merito delle affermazioni di Mencio, notiamo come lo stesso filosofo apra alla nostra questione legandola dapprima alla consapevolezza, al mettere in e-videnza: “Quando si vuol riconoscere se…”. Non dice però, Mencio, guarda te stesso alle parti di te cui rivolgi le maggiori attenzioni, riconoscendone il valore, se pur così sembrerebbe volersi intendere il fine. Mencio nel guardare all’altro – l’uomo osservato – sembrerebbe quasi che voglia lasciar intendere che non possa esser-ci altro disvelamento di sé se non nel confronto, rispecchiante, con l’alterità; o quantomeno con ciò che Heidegger intende con l’esser-ci dell’essere (che nel taoismo è rappresentato dall’essere tra cielo e terra). È il confronto e l’accettazione dell’opinione altrui (sempre a priori ritenuta degna dello stesso rispetto di cui gode l’alterità) che fa della propria verità un articolato “più” vero. Anche il narcisista, infatti, dal suo punto di vista, sarebbe pronto a giurare di aver detto il vero affermando di essere il più bello del reame anche alla vetusta età di cento anni. La verità dunque che viene detta, disvelata (alethèia), non può altro che essere una verità mediata dall’esser in relazione, l’esser-con, come nella relazione Noi: Io-Tu. L’incontro con la pluralità integrata dei Noi è sufficiente elemento di garanzia affinchè non si verifichi l’unilaterale cristallizzazione di una im-probabile verità. Improbabile in quanto non disponibile a verifiche dall’esterno e né tantomeno a “mutamenti”; non da parte ovviamente di un giudice supremo, quanto invece dalla realtà naturale dello stesso esser-ci nel mondo in cui, di volta in volta, siamo presenti e gettati. Come si afferma nella spiegazione de L’Immagine del esagramma 27 – Gli angoli della bocca -, riguardo a un tale approccio di “cura” della propria autenticità: “La quiete [o sobrietà dell’essere] fa sì che le parole che escono dalla bocca non oltrepassino la misura, e il nutrimento che entra nella bocca non oltrepassi la misura. Questa è la cura del carattere”. Dire la verità – parresia – si configurerebbe qui anche come trovare le condizioni atte a riconoscere il vero dalla menzogna, entrambe possono essere infatti svelata l’una e smascherata l’altra. Se in finale abbiamo accennato al 27° esagramma è perché stretta è la relazione con La verità interiore, il 61°. Non soltanto in quanto l’uno è l’esagramma interiore dell’altro, ma in virtù del fatto stesso che in entrambi i casi, nel modo in cui l’essere si relaziona al mondo, si parla di nobili e ignobili e di porci e pesci e gru come di livelli capaci di evidenziare l’essere trascendente dell’uomo teso alla ricerca e alla consapevolezza di una verità, che più che superiore, amiamo definire che supera.
Ci sembra doveroso quanto mai, volendo sottolineare lo stretto legame tra i due esagrammi, citare il seguente passo della giornalista russa:
Certe volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano.
Anna Politkoskaya
Ella possiede verità che avvince!
[1]http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/02/16/michel-foucault-lezione-di-greco.html
[2] Ibidem, pag. 266.
[3] Da I Ching, Adelphi, I linea, nove all’inizio significa: “Esser pronti reca salute. Se vi sono pensieri reconditi, questo è inquietante”.
[4] Ibidem, pag. 679.
[5] Ibidem, pag. 679.
[6] Ibidem, pag. 268.
[7] Ibidem, pag. 269.
[8] Ibidem, pag150. Gli angoli della bocca. Perseveranza reca salute. Guarda al sostentamento e al modo in cui un uomo cerca egli stesso di riempirsi la bocca.
[ii] “Porci e pesci”, tratto da LA SENTENZA del 61° esagramma La Verità interiore.
La sentenza: La verità interiore. Porci e pesci. Salute! Propizio è attraversare la grande acqua.
Propizia è perseveranza.
Porci e pesci sono gli animali meno spirituali e quindi meno soggetti a qualsiasi influsso. La forza della verità interiore deve aver raggiunto un alto grado prima che il suo influsso si estenda anche a simili creature. Se ci trova di fronte a persone così riottose e difficili da attrarre, tutto il segreto del successo sta nel saper trovare la via giusta per avere accesso al loro animo. Bisogna prima liberarsi totalmente dei propri pregiudizi. Bisogna lasciare, per così dire, che la psiche dell’altro agisca su di noi in modo del tutto naturale. Così ci si avvicina interiormente a lui, lo si comprende e si ottiene potere su di lui: la forza della propria persona acquista influsso sull’altro attraverso una porta aperta. Quando nessun ostacolo risulta insuperabile, allora si possono intraprendere anche le cose più pericolose – come l’attraversamento della grande acqua -; e si riuscirà. E’ però importante comprendere su che cosa poggi la forza della verità interiore. Essa non coincide con la semplice intimità o con una segreta solidarietà. Una intima solidarietà può sussistere anche tra briganti. Anche in questo caso, è vero, essa significa una forza. Ma questa non ridonda a salute, perché non è invincibile. Procedere insieme in base a interessi comuni è possibile solo fino a un certo punto. Dove cessa la comunanza di interessi cessa anche la solidarietà; e la più intima amicizia si capovolge spesso in odio. Solo dove la base è la rettitudine e la costanza, l’unione rimane tanto solida da superare ogni cosa."
Tratto da. Il libro dei mutamenti, a cura di Richard Wilhelm, prefazione di C. G. Jung, ADELPHI.
Lino Carriero, romano, naturopata e psicologo di fama nazionale, si occupa di consulenza filosofica e I CHING. Ha pubblicato diversi libri, tra cui, nel 2009, il romanzo "L’ottenebramento della luce". Vedasi www.linocarriero.com