Vincenzo Rezzuti
Petites Madeleines
Mi piaceva tornare a Novara. Era il posto dove ero nato e che non avevo mai conosciuto, essendomene andato a due anni. Non avevo dei veri e propri ricordi della città, mi sembrava però familiare nella sua simpatica bruttezza. Mi piacevano le strade con l’acciottolato, l’odore di muffa e urina, il parlare un po’ strascicato e ubriaco delle persone che incontrava mio nonno. Oltre ai nonni a Novara abitava la zia D, ma anche la zia F. Della zia F però non bisognava parlare. Era una questione molto delicata. Non la si poteva vedere facilmente. Non era nemmeno libera di andare dove voleva. Avevo cercato di capire il perché, ma più di immaginare che ci fosse qualcosa di sconcio nella situazione non riuscivo. Mia madre diventava seria, se gli chiedevo qualcosa, guardava la zia D che ricambiava lo sguardo senza dire nulla. Se insistevo, dicevano che stava male. Era malata gravemente, di una malattia che non conoscevo e non potevo nemmeno capire.
Un giorno mi ci portarono. La prima cosa che pensai quando arrivai in quel posto è che me ne sarei voluto andare, subito, senza nemmeno vederla. Invece resistetti, perché mi avevano detto che ero diventato già abbastanza grande da fare certe cose. Non intendevo deludere nessuno. F se ne stava seduta sul suo letto, in uno stanzone che ne contava una ventina, tutti occupati da donne nella sua situazione. Aveva la pelle del volto molto arrossata e uno strano odore, mai sentito prima. Mi abbracciò con trasporto esagerato, poi prese da mia zia una pentola che conteneva forse del coniglio in umido, con olive nere e alloro, una delle pietanze che mia nonna cucinava più spesso.
Credo fu allora, uscendo da quel luogo, che mi spiegarono cos’era l’elettrochoc. Ne rimasi terrorizzato. Ero ancora un ragazzo, non sapevo tante cose, capire che fosse una tortura inumana mi pareva però così semplice che mi chiesi se non mi fosse sfuggito qualcosa non sull’elettricità o sui matti, ma sul mondo e le persone che ci vivevano. Come poteva essere che si facesse del male a delle persone impotenti?
Solo molti anni più tardi, mia madre mi spiegò cos’era successo a F. Era sempre stata una ragazza molto sensibile. Aveva conosciuto un uomo che era poi partito per l’America. Lei lo aveva aspettato e poi aveva capito. Una sera era scappata da casa con l’intento di uccidersi. Mio nonno l’aveva inseguita e l’aveva fermata mentre stava per buttarsi da un ponte. Chiedo scusa per la banalità della storia. Capita, quando si devono raccontare fatti veri. Fatto sta che non sapendo come obbligarla a rinunciare al suo desiderio di farla finita, mio nonno chiamò il dottore, che scrisse la richiesta di ricovero. F uscì dal manicomio solo quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Ormai era matta per davvero.
Il ritorno di Lina
Sicuramente Lina arriverà,
prima o poi,
sto ad aspettarla, non so cosa fare
nelle mattine tiepide d’autunno
in cui il sole non esce
è pigro, come me
non ha voglia di alzarsi
è un sole triste
e io lo vedo triste,
incapace di consolarlo, incapace
perché un buffone è ridicolo
nei suoi momenti lirici.
Pare strano, anzi, che io sia veramente triste,
ma i buffoni sono sempre tristi.
Il giardiniere non mi condanna a morte,
mi lascia stare, come fossi la statua
di uno gnomo
sepolto in un giardino invisibile,
continua a camminare, a spazzare i vialetti,
guardandomi di sbieco.
Un triste destino oggi,
svegliatomi non molto presto,
per andare in un bagno aperto al mondo
e poi ho rinunciato a tutto
non ho mangiato,
e neanche ho cercato di fare qualcosa.
Questo giardino non è però la mia tomba
perché un corpo vive anche da solo,
di questo non mi preoccupo.
Non posso non confessare
che aspetto con dolcezza
la notte, un sogno migliore.
Il bel sogno che ho fatto stanotte
mi ha impedito oggi di agire
il rimpianto era troppo
lo ammetto, era un sogno erotico,
ma Lina non è fuggita
e io ho dimenticato il suo corpo
perché il sogno che ho fatto stanotte
era un sogno
e un sogno è pieno di false sensazioni
che si ripetono dondolandosi
ogni tanto, ogni tanto,
dolci dolci,
ma non permettono la vita.
Se anche la morte è un sogno
allora tutto è un sogno, tranne il sogno
e dovremmo urlare per questo macabro furto.
Pensierini della buonanotte
“Quando dico:
Merda, peto della mia verga,
(con tono imprecatorio, quel peto, eruttando sotto i colpi di stivale della polizia),
quando dico orrori della vita, solitudine di tutta la mia vita,
cacca, segreta, veleno, GENIA DI MORTE,
scorbuto di sete,
peste d’urgenza,
dio risponde sull’Himalaya:
Dialettica della scienza,
aritmetica del tuo usufrutto, esistenza, dolore, osso raspato dello scheletro del vivere contro Aziluth
al quale,
io,
io dico ZUT.”
(Antonin Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti)
C’è una cosa che da sempre odio, e quando dico odio, intendo ciò che bisognerebbe nascondere, la sensazione d’alterità talmente forte da fare desiderare la distruzione dell’altro. E’ lo sguardo che ti cade dal cielo, che dal tenente arriva al soldato semplice, dal dirigente all’impiegato, dal secondino al carcerato, il potere esercitato e goduto, che non è certo di tutti coloro che casualmente lo detengono, ma solo di coloro che lo concepiscono come ricchezza personale e ruolo conseguito. E’ sangue blu acquisito, senso di distinzione e soprattutto di superiorità, che da sempre oppone le persone e impedisce fratellanza e uguaglianza. Non so cosa in me vi sia che m’impedisce di sopportare, facendomi passare per un anarchico incorreggibile, è qualcosa che ricorda il rifiuto degli indiani d’America di sottomettersi ai bianchi vincitori, a costo di morire o di sopportare le peggiori torture. Sapere che l’umanità è così e che da sempre crea gerarchie non mi consola né mi fa rassegnare, al contrario non fa che reiterare la mia ribellione. Purtroppo non si può impedire che ciò avvenga, perché per farlo occorrerebbe imporre un principio di autorità non meno brutale. Non si può imporre la fraternità, si può solo sentirla. Chi si ribella contro l’autoritarismo, in qualsiasi forma e veste si presenti, avrà però sempre la mia approvazione.
Ferdydurke
“Feci per gridare che non ero uno scolaro, che c’era un errore, feci per fuggire, quando improvvisamente sentii qualcosa afferrarmi da dietro come una morsa, inchiodandomi al mio posto:
era il culetto, il tenero culetto di quand’ero bambino che mi saltava addosso e mi impediva di muovermi. Il professore invece continuava a sedere e sedendo irradiava tanta perfetta professoralità
che invece di gridare alzai due dita in aria come uno scolaretto che chieda il permesso di parlare in classe. Pimko fece una smorfia e disse: ‘Seduto, Kowalski. Ancora al gabinetto?’ “ (Witold Gombrowicz, Ferdydurke, traduzione Vera Verdiani)
“ ‘… si ricorda ancora, per esempio, quanto fa cinque per sette?’ ‘Cinque per sette… ‘ ripetei confuso, sentendo che quella confusione, affluendo al cuore come un’ondata dolce e tiepida, velava
di nebbia la chiarezza delle mie idee. Colpito dalla mia ignoranza come da una rivelazione, semiaffascinato dall’idea di tornare realmente all’incoscienza infantile, cominciai a balbettare e a
ripetere: cinque per sette, cinque per sette… ‘Ebbene, vede,’ disse il direttore, ‘quale miglior momento per iscriversi di nuovo a scuola?’ “ (Bruno Schulz, Il pensionato, in “Le botteghe color cannella”, traduzione Anna Vivanti Salmon)
L’infanzia non è un periodo della vita che si chiude con l’approdo alla giovinezza e poi all’età matura. L’infanzia è sempre dentro di noi, e noi torniamo bambini ogni volta che siamo colpiti
dalla nostra inadeguatezza, e ci sentiamo esclusi da un mondo adulto che sembra ci derida. E’ allora che siamo pronti al capriccio, alla mocciosa ribellione che rende pari l’ottantenne e il
settenne, il temuto dirigente d’azienda e lo scolaro. E se è così, se è vero per tutti, allora la maturità è un inganno, e le nostre istituzioni stesse, le più solenni cerimonie del mondo maturo,
non sono altro che ipocrite mascherate di bimbi invecchiati inutilmente.
Poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Gombrowicz ebbe questa intuizione, che condensò nel suo romanzo più sconvolgente: Ferdydurke. Divertentissimo e allo stesso tempo
raggelante in diversi punti, perché attuale adesso forse non meno che all’epoca della sua uscita. Se allora l’infantilismo degli adulti si nascondeva dietro l’adulta boria nazionalista, ora è
diffuso in ogni dove, tanto che nemmeno ci si cura più di nasconderlo. Padri che rifiutano di esserlo, e vorrebbero prendere il posto dei loro bambini, persone che trasformano la propria vita in
un parco giochi, rifiutandosi categoricamente di diventare adulti, e così via, ed è talmente evidente questo fenomeno, che non vale nemmeno la pena di dilungarsi negli esempi. Come dice
Gombrowicz, però, non si sa cosa sia peggio: se l’infantilismo palese dello studente o la boria educatrice del professore che rappresenta il mondo adulto, perché anche dietro di lui si nasconde
il culetto dell’infante.
Più delicato, così come la sua meravigliosa scrittura, Bruno Schulz, negli stessi anni, narra la storia di un pensionato che vuole tornare scolaro. Un breve racconto che mostra come la fine sia
un ritorno all’inizio, e che la senilità a volte si trasforma in una nuova infanzia cui manca solo la speranza di arrivare un giorno all’età adulta.
Vincenzo Rezzuti, novarese di nascita e bolognese di adozione, fa della scelta dell’eclettismo culturale una filosofia di vita. Informatico e project manager per mestiere, giocatore di scacchi, scrittore e poeta, pensa che per contrastare l’orbo pensiero specialistico occorra occuparsi di tutto, senza avere paura del proprio dilettantismo. Per SeBook ha recentemente pubblicato il romanzo “Gli errori di un samurai”. Altre sue opere sono un volume di racconti, “Chi parla troppo”, e due raccolte poetiche, “Poesie del re sottile” e “Del corpo, per il corpo”. In rete è presente con alcune opere web e con un blog filosofico – letterario: