Nicoletta Poli

Bambara, tratto da "Erzulie"

Al risveglio Giulia è colta da un'atmosfera calda e bianca, quasi inquietante. L'acqua nel bicchiere, la faccia dell'infermiera, le lenzuola, il sudore. Tutto caldo, tiepidamente  malato.

Quando si e` riusciti a sfuggire vivi da una girandola di follia, il rapporto con i propri cinque sensi e` quanto di più inaspetta­to possa capitare. Si rientra nel  quotidiano, ne esci, ci si  ritorna. Si pensa con preoccupazione che le cose terrene ti avranno dimenticato e che niente sarà più come prima. E` come aver subito una meta­morfosi genetica.

Si ha l'impressione che persino il proprio nome  si sia guastato  per sempre e  che  bisognerebbe  solo nascondersi.

Il dottor Krupp -  nella stanza fra quella di Mario e di Wrumel – osserva Giulia che farnetica nel sonno su una certa Erzulie. Dice di essere lei, Erzulie.

L’assistente gli legge le generalità della paziente, compreso il fatto che è stata un’antropologa. Abita a Milano ed è già stata in cura per problemi di depressione, ma non nella stessa clinica.

- Il marito?

- Morto più di dieci anni fa’. Antropologo anche lui.

- Nessun parente?

- La sorella, ma abita a Londra. E’ stata avvertita, arriverà domani… e poi, sì una figlia... ma gliel’hanno tolta, vive a Milano.

- Perchè gliel’hanno tolta?

- Era la sua figlia adottiva, non era più in grado di tenerla… così...

- Come si chiama?

- Denise, credo, è haitiana.

Krupp interrompe il collega bruscamente, vuole sapere che farmaci le hanno dato. Poi licenzia tutti, vuole rimanere solo con Giulia. La osserva nel risveglio, mentre lei sgrana gli occhi e non capisce.

- Giulia?

Uno sguardo da cane. E Krupp ha un moto improvviso di ribellione nei confronti del suo lavoro.

- Mi sente, Giulia?

Giulia lo guarda con l’occhio opaco.

- Giulia, sono il dottor Krupp, il suo psichiatra. Le va di parlare un po’?

- No, ora no, sono tanto stanca.

Ed il suo invito è una preghiera. Però, pensa Krupp, non è male. Vedremo domani. Sono sicuro che mi racconterà. E’ una che vuole parlare.

Esce dalla stanza con il pensiero di Erzulie in testa.

 

***

- Denise!  Denise! Sono ore che ti chiamo!

Quella  bambina  aveva  la  capacita` di  sparire  da un momento all'altro con una facilita` inspiegabile. Da quando l'avevo  portata con  me a Milano, mostrava  una chia­ra predisposizione a non voler essere ne` dissuasa ne` rimprove­rata. Mi metteva costantemente alla prova, certe volte avevo l'impressione che godesse nel farmi ammattire.

Arrivando correndo, mi butto` le  braccia al collo e mi porse un libro aperto a meta`.

‑ Maman Giulia regarde, dans ce livre le secret!

‑ Quale libro?

‑ Regarde, maman, papillon!

Quando era eccitata parlava sempre in francese.

‑ Si dice farfalla, Denise. Lo vuoi parlare o no l'italiano!

Pronunciata  meccanicamente  la  parola,  torno` a ripropormi  il problema ancora più eccitata. E con orgoglio mi mostro` l'inset­to di colore scuro tutto spiaccicato li`, tra le pagine del li­bro.

‑ E` questo il segreto?

Al mio tono duro Denise rispose rimanendo in  silenzio, quasi umi­liata. Sentii di non poter sfidare un gesto cosi` elementare com­piuto da una bambina. Da antropologa avrei dovuto sapere che  i bambini  sono crude­li. E Denise aveva cinque anni. Allungai la mano sulla testa bruna e le feci  una  carezza invitandola a sedersi a tavola. Divoro` tutto con un appetito formidabile senza dire una  parola per  tutta la  cena. Poi,  con gli occhi rivolti al soffitto, mi chiese se po­teva tornare a giocare. Al mio cenno d'assenso sgambetto` tutta contenta verso la sua cameretta e solo dopo un bel po' si riaf­facciò dalla porta della cucina, tenendo in mano un fagottino di stoffa nera. Era scura in volto, come se fosse stata redarguita da qualche sconosciuto. Mi stavo avviando verso di lei per consolarla, quando mi fermò tenendosi stretto il fagottino nero, quasi facendosene scudo.

‑ Denise ‑ le dissi dolcemente ‑ che cosa ti è successo?

‑ Maman, c'est mort!

E aprì il fagottino nel quale aveva deposto la farfalla.

Povera bimba, voleva farmi credere di non averla ammazzata lei e che, anzi, si apprestava inconsciamente a predisporre un funerale con tutte le onoranze del caso. Ma fu il gesto successivo che mi preoccupò. Mi prese per mano e mi condusse davanti al camino acceso. Non la­sciando nemmeno per un attimo la mia mano, gettò il fagottino nel fuoco. Rimanemmo lì a lungo, l'una accanto all'altra, mentre Denise era perfettamente immobile rapita dal fuoco. Allora l'abbracciai teneramente. Lei non si scostò, ma pareva lontana.

Quando iniziò a piangere, mi rincuorai. Ma provai, al tempo stesso, un senso di smarrimento.

 

***

Quando  decidemmo  di adottare  Denise fu un giorno di gran festa per me e Mario, mio marito. Il fatto di non poter aver figli non era mai stata una  vera e propria tragedia, ma toccare  quel tasto ‑ le  rare le volte che lo si faceva ‑ c'imbarazzava profondamente. Considerato che il problema non era mai stato risolto fino in fondo, quel giorno decisi di affrontare l'argo­mento senza pudori. Io lo volevo un figlio, lo volevo a tutti costi. Quando tentai di far girare il discorso su una possibile adozione, lui sorrise con molta dolcezza e, per tutta risposta, mi fece cenno di avvicinarmi  indicandomi al  di la` del  giardino una finestra illuminata. Del  tutto visibile, dentro  la  cucina, si muoveva una donna, probabilmente sola, che dava  da mangiare a un gatto. Mi abbraccio` e mi disse che avevo ragione, che` tanto  lui non sarebbe sopravvissuto in  eterno. Io lo schernii rimproverandogli che si considerava eterno o  no a se­conda di come gli girava la luna. Ma l'importante era che lui avesse capito. Per tutti i giorni successivi mi parve provato ma sereno e  quel suo "Del resto, prima o poi ci si doveva arriva­re!" esplose una sera con un sospiro di sollievo dopo chissà quanti conflitti interiori. Poi s'illuminò e tentò di rassicurarmi, dicendo che ogni cambiamento suscita qualche paura, ma che avremmo af­frontato tutto con serenita`.

Io ero al settimo cielo. Felice, ma  anche cosciente del fatto che ottenere l'adozione  avrebbe richiesto  molta pazienza e molto denaro. Brindammo e facemmo l'amore  come se fossimo li` a sal­vaguardare gli ultimi spazi di liberta`.

La  notizia  arrivo` circa un  anno  dopo. Partimmo  per  Port au Prince, nell'isola di Haiti.

 

***

Nel percorso che va dall'estrema  periferia di Port au  Prince al luogo che ci avevano indicato per far la conoscenza di Denise, mi sentii cogliere da una strana ebbrezza. Dopo una cinquantina di chilometri sulla strada che  costeggia il mare, ci inoltrammo in una viuzza  strettissima,  che si  infila­va nell'interno. Non si vedevano che le alte canne da zucchero verdi e  quella via ciottolosa che  diventava mano  a mano sem­pre piu` angusta ed accidentata. Immaginai che  vi fossero  altri villaggi vicini, ma  era impossibile  vedere le  capanne attra­verso quella vegetazione foltissima che a tratti si spingeva ad invadere non solo il sentiero tortuoso, ma anche l'abitacolo del­la macchina. Cosi` all'ebbrezza che avevo sentito appena lasciata alle spalle la citta`, si  sostitui` un  senso di  grande soli­tudine. Dopo un tempo imprecisato, ci trovammo in una strada sterrata più larga, dove la canna da zucchero aveva lasciato il posto ad un'alta staccionata oltre la quale si vedeva una  costruzione in muratura col tetto in lamiera ondulata e una  specie di gazebo col tetto di paglia. L'atmosfera  era  carica di  odori pesanti, quasi  dotati di  un loro spessore, che, mescolati alla calda umidita` dell'aria , mi diedero, per un attimo, un senso di ver­tigine.

Denise apparve improvvisamente. Era pulita ma accaldata e indossava una tunichina bianca. Il contatto epidermico con lei fu come l'incontro con la folla brulicante di  quell'isola. Dovevo evitare  di pensare alla polvere ed a quell'incessante scalpiccio di piedi scalzi sulla sabbia e sulle strade. Ora però dovevo solo tuffarmi  incurante  in lei, nella  sua pelle scura e in quegli occhi così malinconici. Avremmo avuto ancora due giorni per visitare Haiti e i suoi stridenti  contrasti. Mio marito, sicuramente piu` interessato di me alle vicende dell'isola, mi trascino` dappertutto, perfino a ve­dere le bidonvilles. E  ogni tanto, per scimmiottare una  escla­mazione diffusissima  fra  gli haitiani, diceva ridendo "si bon Dieu vle'", cioe` se il Buon Dio lo permette. Come se la presen­za di Denise portasse ad essere fatalisti, pensavo, ma erano tut­te assurde contorsioni mentali. Ma a me non importava, ero felice.

L'ultima alba passata ad Haiti fu  cadenzata dal  rintocco  delle campane che salutano il giorno che nasce. Con l'avanzare del mat­tino, il suo rimbombare ovattato e ritmato volava e si disperdeva nell'aria lasciando il  posto ai mille  rumori del villaggio, ai brusii della remota campagna. Ma  l'impressione piu` forte veniva dall'odore dei mercati loca­li. Gia` fin  dalla prima mattina si snodavano verso la zona del mercato a lunghe colonne disordinate uomini, donne e bambini. C'erano vecchi - anche se mi chiedo tuttora se lo fossero davve­ro- che si trascinavano sotto un sole impietoso fino al mercato,  riponendo poi  la propria merce alla rinfusa in un posto  qual­siasi. Si era spesso attorniati da nugoli di bambini di diversa eta` che urlando chiamavano la propria madre o il fratello piu` grande. Le donne ‑ alcune bellissime ‑ portavano per  mano i bimbi  piu` grandi e, allaccia­ti  alla vita, gli ultimi nati. Parevano rassegnate a quel carico quotidiano, cosi` come non si  ribellavano  a mosche e  insetti  di  ogni  genere  attratti dall'umidita` dolciastra della loro pelle sudata. Non si comprendeva ‑ se non seguendo questa caotica  processione ‑ se  la gente andasse a vendere o comprare. Portava­no sul capo enormi panieri o catinelle di  smalto e  plastica con  un bel portamento retto.

Una mattina, d'un tratto,  un angolo un po' appartato  ma non nascosto, mi col­pi` piu` degli altri per il tipo di merce  esposta, diretta evi­dentemente ad una  clientela speciale. La prima cosa che  balzò agli occhi fu la varieta` di panieri ripieni di foglie, semi, bacche, sassolini, conchigliette, scorze  d'albero  e polveri di diverso colore e consistenza. Vicino ai panieri erano disposti disordinatamente  oggetti  rituali di  metallo, legno ed osso. Mario, captando la mia innata  curiosita` per l'occultismo , mi chiese, ridendo, se m'andava di girare per qualche tempio alla ricerca  della  "pierre  tonnerre", la  pietra  sacra degli hai­tiani. Gli stavo dicendo di si`, che  mi sarei divertita  tantis­simo, quando  mi accorsi di  uno spettacolo  ripugnante. Su un telo color sabbia erano messi in  bella vista  teschi di uccelli, serpenti, mammiferi, allineati  accanto ad ossicini e a  cadaveri di  topi ed  altri  piccoli  animali  nei loro  diversi stadi  di putrefazione. Mi voltai  verso di lui in preda ad una nausea di­sperata e mi allontanai  in mezzo a quella folla fitta  e  mobi­lissima. Appena fuori dal  mercato, dove  ancora si esponevano un pesce, un magro pollo, qualche  frutto, un pugno di verdura  o  poche uova - povere  ricchezze  che si  tentava di barattare con qualche oggetto - lui mi abbraccio` forte dicendomi che non do­vevo impressionarmi, chè quello era  un luogo dove poverta` e re­ligione si incontrano e si fondono l'un l'altra. Gli risposi che per me era solo un luogo di barbarie e incominciai a piangere senza riuscire a fermarmi. Lui , diventato d'un tratto serio, m'intimo` con un tono duro di smetterla e si mise a raccontarmi che ad Haiti  ed  in molti altri luoghi che praticano certe anti­che religioni, in occasione di grandi calamita`, venivano fatti sacrifici umani.

- Sono  sacrifici di  sangue , offerti in al­cune citta` dove   alcuni muri di argilla del palazzo reale sono stati addirittura impastati con il sangue delle vittime sacri­ficate durante particolari riti! Inorridii.  La vita e` traboccante di  fluidi, umori, so­stanze invisibili  che s'intrecciano  fra  loro per propagare ancora  vita. Forse quella  gente  pensava che ogni nuova vita fosse necessario compensarla, per un macabro pro­cesso osmotico, con la morte. Per ogni chilo di felicità, un chilo di infelicità. Una bilancia della vita ed una bilancia della morte. Fatto sta che Mario, un anno dopo, se lo portò via la bilancia della morte.

 

***

Denise  si  stava affaccendando  con delle  conchiglie  intorno al camino spento. Le  aveva  raccolte silenziosamente,  per tutto  il pomeriggio, lungo la spiaggia

- Maman  Giulia ‑ grido`  felice  facendomele  racchiudere tutte  nella mano ‑ ecco!

"Ecco" e` una parola che  aveva  imparato  subito,  fin dal primo mese di vita in Italia. La pronunciava gioiosamente anche perche` le risolveva molti problemi di  costruzione sintat­tica e semantica. Poi si diresse  correndo verso  la scala  che scendeva dalla terrazza al giardino dove frugo`a lungo nell'aiuola vicino ai giacinti per tirare fuori, alla fine,  un sac­chetto. Copri` con la terra il buco fatto e torno` in casa.  Mi ci  volle un bel po' di pazienza a convincerla  che avrebbe dovu­to confidarsi con me sul contenuto del sacchetto. Aveva uno sguardo impaurito, come se non avessi alcun diritto di farle svelare un  segreto cosi` intimo. Con pazienza le presi la mano e la feci sedere  sulla  panchina davanti  alla porta di ingresso. Nonostante  le mie  esortazioni con occhiate sorridenti e le ca­rezze sulle braccine scure, il silenzio duro` molto a lungo. Sem­brava  non accorgersi assolutamente della mia presenza.

Cosa c'e` in quel  sacchetto?

- Cauri, maman Giulia!

Li` per  li` pensai che  avesse inventato  tutto, compresa quella assurda parola, ma mi ricredetti quando docilmente slego` il sacchetto e  rovescio`  sulla  panchina il  contenuto. Erano piccole conchiglie, probabilmente molto rare, data la graziosissima forma. Forse ad Haiti si  usavano come  or­namenti , gioielli,  forse  venivano  montate su  collane o brac­ciali o per abbellire certe complicate pettinature femminili.

‑ E perche` le nascondi?

Silenzio. Sembrava non avesse capito e mi spiegai meglio anche con dei gesti.

‑ Perche` cauri sotto terra?

Raccolse  le piccole  conchiglie con la mano destra senza rimetterle nel sacchetto e mi prese la mano guidandomi verso il camino. Con un gesto imprevedibile quanto rapido, le getto` tutte sulla stuoia davanti al camino. I cauri  rimbalzarono sordamente andan­do a disporsi in vari punti e anche sul pavimento nudo.

Rimasi oggettivamente sorpresa quando rividi il suo sguardo vuoto e immobile, come se attendesse  un responso, certamente non mio.

I giacinti, maman, non li toccare, per piacere.

Poi si rifugiò fra le mie braccia e pianse.

 

***

Il delineare  strane  figure nel buio, dottor Krupp,  era sempre stato un mio divertimento fin da  bambina. A volte  erano solo contor­ni vaghi e suggestivi di personaggi assolutamente fantastici dalle fattezze mostruose. Eppure quei  mostri, che  a me non  parevano tali, mi trasmettevano, nella  mia fertile immaginazio­ne, i  loro  poteri magici. Cosi`, in virtu` di quei poteri, di­ventavo  invisibile e mi avventuravo a spiare dai vetri delle ca­se vicine. Quasi sempre era  inverno e,  tra i  ghiaccioli appe­si ai vetri, solo qualche spiraglio  mi  permetteva  di osservare cio` che era  puro frutto della mia fantasia. "Semel in anno licet insanire!" ‑ diceva  mio padre ‑  Ed io ride­vo sotto i baffi pensando che non avrebbe  mai saputo di  queste mie fantasticherie con cui convivevo altro che una volta all'an­no. Mi sentivo una pianta bizzarramente fiorita in un ambiente non suo, dopo essere stata innestata di rami nuovi e stravaganti. Ma quel sogno non fu come  una sorta di  sospensione creativa fra il sonno e la veglia, fu come una  rivelazione primitiva.

Pescavo nelle acque di un fiume e  d'un tratto  rimasi colpita dalla bellezza di un fiore color  malva che galleggiava sull'ac­qua. E piu` il mio  sguardo si allargava, piu` ne  apparivano di nuovi distesi sui bordi del fiume, dando l'impressione  di un tappeto lunghissimo. Avvicinandomi con una strana piroga , mi mi­si a raccoglierli con voracità, senza accorgermi che, mentre li coglievo, stavo per essere  trasportata  dal  vento in altri luo­ghi fra una vegetazione sconosciuta. Me ne resi conto solo quando vidi Denise che nuotava nelle acque con uno strano sorriso sulle labbra. Per raggiungerla  mi buttai dalla piroga nella corrente calmissima  fra le foltissime  radici dei giacinti d'acqua con una strana sensazione di terrore che diventò insostenibile quando le lunghissime radici dei fiori incominciarono improvvisamente a imbrigliarmi impedendomi ogni movimento. E dibattendomi nel ten­tativo di liberarmi, mi ritrovai abbracciata a Denise che, con lo stesso sorriso di prima, mi spingeva  verso il fondo  scuro  del­le  acque  del fiume.

Mi svegliai al pianto  di Denise, mentre stavo  sprofondando len­tamente nella morte. Quando  riuscii  a tornare a letto mi ricor­dai dei giacinti nell'aiuola in giardino e mi addormentai quasi tranquilla­mente.

 

***

‑ Giulia, lo sai che se non mi dai il permesso, non ti amo!

‑ E tu credi che io te lo dia?

‑ Sì, credo di sì.

‑ E da che cosa lo deduci?

‑ Dal fatto che appena ne parlo ti vengono le orecchie rosse!

A quel punto il gioco finiva. E ogni volta che finiva mi  senti­vo malinconica come se mi portassero  via un po' di giovinezza. Restava  lui  e la sua  risata di  prammatica dopo aver pronun­ciato "orecchie rosse"; sicche`  finivo per  spazzare via quei pensieri in un attimo, pensando banalmente che , tutto sommato,  non era cosi` orribile invecchiare, finche` si aveva ancora  vo­glia di giocare.

Alla fine dell'estate,  Denise aveva avuto  una brutta  influenza che c'impedi` di partire tutti insieme per l'Olanda, dove  Mario aveva da sbrigare  alcune faccende di  lavoro. Parti` di notte dall'aereoporto di Milano, senza che riuscissi nemmeno ad accompagnarlo. L'autunno  in Brianza si distendeva  nebbioso, preannunciato da frequenti piogge e forti abbassamenti di tempe­ratura. Il giardino , in quel suo aspetto  un po' decadente con le chiazze di foglie rosse sull'erba  ed i giacinti sfioriti, mi faceva pensare ad un fiume prosciugato.

La  notte  stessa in cui lui  partì, Denise ebbe un attacco d'a­sma talmente forte, da dover chiamare con urgenza il medico, che la trasferì immediatamente in ospedale per metterla in osservazione.­ Quando  giunse l'incredibile  notizia, la  bambina  si  era appena rimessa da un paio di giorni, ma stava sottoponen­dosi a tutte le prove allergiche possibili.

La  morte  di Mario mi colse impreparata. Il rac­conto dell'incidente aereo mi diede per molto tempo la sensazione di frugare nell'infinito dell’aria alla ricerca del suo sorriso senza mai trovarlo. Se solo  un giorno  l'avessi ri­trovato, allora lui lo avrebbe fatto sentire solo a me.

Nei primi mesi in cui io e  Denise rimanemmo sole, lei diede chiaramente segno di comprendere il mio stato d'animo. Se  ne stava spesso ‑ composta e misurata nella  sua stravaganza ‑ a giocare in  silenzio o ad imparare l'italiano con l'aiuto di un'insegnante che aveva sempre goduto della fiducia mia e di Mario.

Io sentivo dentro un  indeterminato senso di resa  che  offuscava frequentemente la mia capacita` di ragionare e andare avanti. Non facevo che scrutare l'aiuola dei giacinti  e curare il giardino. Ogni tanto, nelle  notti di luna, camminavo su e giù per il giar­dino e stavo per delle ore a pensare seduta sulla panchina sotto l'olmo.  Mi  rasserenava  il  chiarore della ghiaia e ,alzando gli occhi verso il terzo piano  della casa accanto, mi consolava ve­dere una finestra spesso illuminata fino  all'alba.

Non ero mai riuscita a  scoprire chi  fosse nascosto in quella casa e quella sera rimasi ad aspettare a testa bassa sulla solita panchina. Ma mi stancai presto di rimuginare e mi misi a girare in lungo e in largo, buttando un occhio verso il giardino illumi­nato del mio vicino nottambulo. Così, con enorme sorpresa, mi ac­corsi che aveva costruito, proprio sotto il pretenzioso lampione in ferro battuto, un'aiuola a  sette lati con, a capo di ogni an­golo, un fiore differente. Perfettamente al centro, come se tre rette immaginarie convergessero in un  punto preciso, spuntava un giacinto color malva.

Stupefatta per la meraviglia dell'aiuola  e lo strano intreccio di messaggi  quasi  sottintesi, una  mattina scesi in giardino e aspettai l'uscita del misterioso vicino. Mi  colse di  sorpresa mentre  incitavo Denise a  non calpestarla....

‑ Lei lo sa che il numero sette regola gran parte dei piu` importanti cicli vitali sulla terra?

Mi  voltai e vidi una signora di mezza eta` piuttosto bella, gradevole. Le sorrisi e, senza chiederle il motivo della sua intrusione ver­bale, le risposi che "no, non ci avevo mai pensato".

‑ Chi e` a contatto con la natura come lei ‑ insistette quasi con pedanteria ‑ deve  sapere che il ciclo della vita e della morte sulla terra e` connesso al crescere e decrescere della luna nel percorrere  il suo  ciclo  infinito di genesi e metamorfosi nel cielo!

La  interruppi cercando di sciogliere il nodo di un'intromissione forse anche interessante ed erudita, ma a me intollerabile.

- Il  ciclo lunare ha sempre esercitato su di me un certo fascino,ma non credo che avrò mai il tempo per occuparmene!

Ma questa volta non riuscii a fermarla.

‑ Ha mai pensato che il ciclo lunare e` formato da quattro fasi? E che ciascuna di queste dura sette giorni? E se ci pensa bene, si renderà conto che anche il nostro corpo subisce l'influsso di cicli settenari: ogni sette anni rinnova tutte   le sue  cellu­le, le mestruazioni delle donne avvengono secondo   cicli di sette per quattro giorni e durano mediamente tre giorni  e  mezzo (cioe` sette  diviso due). Per  non parlare poi del   volto del­l'uomo che ha  sette orifizi e per  non contare quanto   nella  natura  e` raggruppato  in  ordine  di  sette: i colori   dell'arcobaleno, le  note  musicali, le  sette  meraviglie  del   mondo!

Quel  senso di irrealta` e  follia che  traspariva nettissimo da lei si dissolveva nel suo bel viso con gli occhi chiari. Era  difficile, osservandola piu` a fondo, darle un'eta` precisa. Incuriosita, le chiesi‑ scusandomi per la mia indiscrezione‑ se abitava sola. Disse con fermezza e con una punta di orgoglio che non si era mai sposata e che era andata in pensione lo scorso anno, perche` voleva dedicarsi completamente alle letture e al giardinaggio.

‑ Il  suo giardino e` splendido!

Mi  complimentai  glissando sul   discorso dell'aiuola. Ma lei non lo evito`.

‑ Lo stava guardando da un paio di giorni, non e` vero? Cosa vuol   mai, sono  affascinata  dal  numero  sette, sono  perfino nata   settimina!

E  si mise a  ridere, di una risata  assolutamente innocua, quasi infantile. Imbarazzata, mi congedai con la scusa  della bambina, invitandola a fare due chiacchiere quando ne avesse avuto voglia. Acconsentì rispondendo che si sarebbe fatta viva molto presto. Poi mi tese la mano.

‑ Erzulie, piacere.

 

***

‑ Stanotte saremo tanto felici, vero Denise?

Ero  ancora  suggestionata  dalle sue  stranezze e ogni volta che aveva atteggiamenti affettuosi e semplici mi stupivo. Quella sera mi aveva  perfino aiutata a  sparecchiare  la tavola porgendomi i piatti e  la saliera. Mi  ero avvicinata  per un lungo abbraccio, convinta che sarebbe fuggita, ma non fuggi`. La misi a letto e mi trovai immersa anch'io, poco dopo, in un sonno profondissimo.

Mi svegliai al suono di piu` tamburi. Eravamo in un folto numero, tutta gente  di colore tranne me, seduti  a cerchio intorno ad una vecchia negra alta e robusta che sembrava colta da convulsioni e tremiti. Si agitava e cantava una cantilena ripetuta all'infinito: un in­no, credo, in onore di un certo Ezili. E se le parole mi risulta­vano incomprensibili, non così il suono, tanto che lo imparai quasi subito. Così con quella gente cantavo anch'io, senza cono­scere il senso eppure coinvolta:

 

                     “ Ezili elu

                     A la Loa ki red

                     Ezili u made` kocho

                     m'ape ba u li

                     Ezili made` kabri de` pie`

                     kate` pum pra pu ba li!".

 

Annichilita, me ne  stavo lì, in un angolo, a  tentare di  deci­frare quelle parole, quando alla  donna negra fu  consegnato un maiale nero o dipinto di nero. Con  uno scatto animale, immerse un lungo coltello nella gola della bestia, ne raccolse  il sangue caldo in un largo recipiente e lo offri` a ciascuno dei parteci­panti che a turno bevvero giurando obbedienza a Ezili.

Mi trovai, come per incanto, non solo dispensata  dall'assag­giare la  macabra bibita, ma improvvisamente catapultata fuori dalla cerimonia in una tempesta tropicale. In compagnia di una vecchia annaspavo spaventata in una casa enorme piena di strani animali. E­rano bizzarri incroci fra cani e gatti, vermi e maiali, piccoli mostri , ma sorridenti e probabilmente innocui. La donna mi con­dusse in  un antro praticamente disarredato con un solo tavolo al centro,  senza sedie attorno. E qui il suo atteggiamento  im­provvisamente cambio`. Mi ordino` quasi con durezza di gonfiare un palloncino mentre insisteva nel ricordarmi questa  data: 22 agosto 1791. Il palloncino  giallo, gonfiandosi piano piano e prendendo forma si materializzò in un machete dal quale ‑ mi dis­se ‑ mi sarei  dovuta difendere sempre," perche` la  mia vita era  sotto il suo segno". Ma  anche lei svanì e mi ritrovai in una fittissima foresta tropicale con in braccio Denise e nella mano destra  il macete per aprirmi la strada. "Denise, vedi  che ci  stiamo avvicinando!" urlavo.

E quando aprii gli occhi la  vidi lì in piedi,  accanto al let­to,  con lo sguardo fisso di certi momenti. Silenziosa, mi prese la mano e la strinse forte.

Dopo quel  sogno terribile, dottor Krupp, mi decisi a buttare via tutti i coltelli grossi o qualsiasi altro oggetto potesse assomi­gliare ad un machete.  In fondo tutto quello che stava accadendo non poteva essere messo in relazione se non con un momentaneo squilibrio psichico dovuto alla morte  improvvisa di  mio marito. Stavo  pa­gando il  prezzo di un'assenza che, per non gettarmi nella pro­strazione, mi dava l'enorme  vantaggio di  conoscere i culmini e gli  abissi della  mia psiche.A rendere  ancora piu` dettagliato e  veritiero il  quadro di una malattia di origine nervosa, erano subentrate seccanti febbri­ciattole serali  che scomparivano la mattina dopo. Sentivo che, nonostante la paura di avere chissa` quale malattia, ne sarei uscita fuori. Il problema era  la notte, quando mi  attendevo sempre  di veder comparire da un momento all'altro qualche figura bizzar­ra.

Dal giorno del colloquio in giardino, Erzulie  aveva preso l'abi­tudine di venire a trovarmi quasi regolarmente. E col tempo di­ventò l'unico essere umano con il quale scambiavo quattro chiac­chiere e qualche  impressione sul mondo. Si offriva spesso di prepararmi  un infuso  di menta e tiglio, che ,diceva con la sua solita sicurezza, avrebbe calmato le mie febbri di origine nervo­sa.

‑ Sai  Erzulie, mi sto chiedendo da quanto tempo vivi qui. Quando   sei arrivata chissa` dov'eravamo io e Denise per non notare alcun trasloco!

‑ Ormai e` quasi un anno, dalla primavera scorsa, non ricordi?

 

 ***

I suoi sorrisi erano vagamente stereotipati, ma avevano la capa­cita` di mutare  inaspettatamente l'espressione  degli occhi chiari, che diventavano tutte le volte due fessure allungate e sfuggenti. Con quegli stessi occhi prendeva in braccio  Denise e, dandole un buffetto sulla guancia, le faceva sempre la stessa domanda:"Ti va di fare un giro in giardino?". E cosi` se ne anda­vano, mano nella mano ed in  assoluto silenzio, a passeggiare  lungo il perimetro della siepe. Qualche  volta Denise si  scate­nava in una corsa impazzita in lungo e in largo senza meta, men­tre Erzulie le  urlava: "Fermati, Denise, non  sai che oggi e` il primo giorno di luna?". Denise non capiva e  allora Erzulie  glielo ripeteva  in francese lentamente. A quel punto intervenivo io, pregandola di non indottrinare troppo la bimba.  Erzulie lì per lì s'irritava , ma  poi mi rispiegava  daccapo la pappardel­la dei cicli di luna ed io mi calmavo.

‑ Il  primo giorno di  luna, crescente o  decrescente che sia, e` l'ispiratore di  una somma di  pensieri benefici, infonde nuove   energie e da` coraggio alle nuove prove!

‑ E allora?

Il mio tono un po' scanzonato - ma soprattutto incredulo - la faceva accigliare appena appena. Continuava con una costanza invi­diabile: "E  allora  bisogna pensare di  essere come  una pianta e star li` a prendere i  raggi della luna. In silenzio, come una bella lucertola al sole!". Quella frase ‑ sempre la stessa ‑ mi confortava moltissimo e col tempo mi resi conto che il mio "E allora?" era un modo indisponente ma efficace per fargliela ripe­tere.

Un  giorno le chiesi spudoratamente se credeva in Dio, ma mi ri­spose che non si sentiva di  parlarne. L'indomani però mi porto` la piccola riproduzione in rame  di un  pentacolo; riproduzione , disse , di un'opera proveniente  dalle Catacombe e  conservata nel Museo di San Giovanni in Laterano. Raffigurava un foro pos­sente, la cui luce si allungava sopra uno spazio che si voleva  far pensare illimitato. Mi spiegò che rappresentava la speranza di un felice approdo per le imbarcazioni costrette a  navigare sul mare agitato e che me lo regalava.

Cosi` priva di "corredo liturgico" com'ero accettai il dono appa­rentemente  entusiasta, ma con  scetticismo. Il  mio ateismo era stata una conquista troppo difficile perche` me ne  potessi liberare d'un sol colpo con un pentacolo. E perfino riprodotto. Un paio di giorni dopo a Denise venne una febbre altissima. Il medico  non trovo` traccia di malattia  alcuna e m'invito` a tranquilliz­zarmi, consigliandomi di portare al piu` presto la bimba da uno psicoterapeuta. Chissa`,  forse quelle  febbri alte improvvise o quegli attacchi di asma erano semplicemente di origine psicosoma­tica. Mi sentivo in uno  stato d'animo di profondo smarrimento e di grave sconforto,  convinta che non sarei mai riuscita a com­prendere mia figlia. Di lei,  nonostante l'affetto, captavo  con  trasparenza  il  fondo oscuro, il suo spavento  antico per il nostro  mondo profano. La vivacita` ciarliera, ingolfata dalla non perfetta conoscenza della  lingua ,era sempre del  tutto ca­suale e , quel che era peggio, non pareva  nemmeno infantile.

Avevamo appena finito di  cenare, quando una sera Denise in­comincio` a tossire  violentemente. Mentre le guance le si arros­savano per lo sforzo e stringeva forte le mie mani, tentò di dir­mi qualcosa. Li` per li` mi fu  impossibile  capire, poi mi resi  conto che si sentiva  evidentemente un formicolìo intenso e dif­fuso, tanto da farla agitare tutta, come  se avesse piccole be­stiole disperse all'interno del suo corpicino. Ero intenzionata ad accompagnarla  in bagno, quando la vidi far cenno  di voler vomitare e qui  accadde un fatto orribile.  Denise comincio` a sputare violentemente sul  tappeto del bagno una manciata  di chiodi che, per lunghezza e quantita`, non era concepibile potes­sero essere stati tenuti nascosti nel cavo orale.  Esterrefatta mi trovai  ad aprire  la bocca per gridare e per  chiedere aiuto. Ma, come capita soprattutto nei sogni, la voce non usciva.

Chè di un  sogno realmente si era trattato: Denise, davanti a me, seduta al tavolo di marmo in cucina, mangiava una castagna ridacchiando.

 

***

Si  stava avvicinando la primavera ed il giardino sembrava attra­versato da un'aria limpidissima. Era tutto un rumore di compositi corpi vegetali che  vivevano li`, sopra e sotto la terra. Erzulie  continuava  a celare le forme di  una scienza"  giunta al senso delle sette meraviglie" e m'indicava  ogni volta un tra­gitto che ero impossibilitata a compiere  per mancanza di ener­gie, sostenevo  io. Ma non era proprio così, ero semplicemente infastidita dai suoi racconti.  Le estenuanti narrazioni  sui cicli lunari e sui pentacoli non solo non m'interessavano, ma le ritenevo anche pericolose. Spesso le facevo delle do­mande solo per rompere certi silenzi. Sentivo allora , da parte sua un inevitabile svi­gorimento  emotivo, che finiva per celare sotto un silenzio pesante. Io, Erzulie e Denise stavamo diventando, nella mia mente, tre figure insensate. Ognuna di noi con dei drammi le cui ragioni rimanevano oscure. In torno c’era sempre un’aria di quiete fatiscente. E perdipiù, certe volte, non riuscivo a cogliere un rapporto  anche vago  tra noi e tutto cio` che era reale.

‑ Erzulie, hai mai pensato chi siamo? E che stiamo a fare in questo mondo?

‑ In un certo senso, Giulia, a vedere di pensare il piu` possibile una cosa esatta.

Lei  aveva sempre  una risposta  per tutto, sembrava non stupirla mai nulla, sembrava avere una conversazione inesauribile. Ma quella volta, dopo la sua arguta osservazione, calò un silenzio freddo, asso­lutamente inusuale. La guardai e mi accorsi di averla costretta a ricordare  qualcosa che la buttava come giu` da un precipizio. Mi affrettai a scusarmi per la mia brutalità, adducendo il motivo che pensavo molto spesso alla morte.

Allora lei risollevo` lo sguardo dritto attraverso le lenti degli occhiali.

‑ Non occorre scusarsi, ‑ disse ‑ penso  solo che  dovresti esse­re pronta a ricominciare daccapo.

Sembrava coinvolta nelle mie sciagure.

‑ Non m'importa, ormai non ho più energie e anche se ne avessi non saprei proprio più cosa farmene!

‑ Eppure io  credo che tu abbia  ancora  molte risorse, Giulia! Ma penso anche   che tutta l'energia conservata dentro di noi a volte sia troppo   grande per sostenere la quotidianità!

Incomincio`  a crescermi  dentro un'autentica angoscia... Ma lei prose­guì.

- E tu hai molte energie, anzi troppe. Forse è per questo che ti stanno accadendo  quegli strani fenomeni.

Cosi` lei  sapeva. Avrei  potuto chiederle tutto cio` che deside­ravo sapere, ma se fosse stato un malinteso?

‑ Sai Giulia, una volta mi riusciva   benissimo di  figurarmi come la vita fosse una continua manifestazione di Dio. Sai, Dio ha   differenti  nomi: per autorizzarne l'uso bisognerebbe ricorrere   alla  teologia mistica  di San Dionigi  o a piu` rari ed oscuri   manoscritti di altre religioni non cattoliche. Se tu...

La  interruppi bruscamente  dicendole che non avrei sopportato ol­tre  le sue assurde  divagazioni su  Dio, numeri e pentacoli. Ma  lei sembro` non mostrare rancore per la  mia aggressione verbale e mi prego` sorridendo di ascoltarla.

‑ Voglio dirti, Giulia, che non e` necessario partire da Dio o da qualcosa di  soprannaturale. Ogni Dio ha il suo alter ego   che  lo annulla, proprio  come se ci  trovassimo in un campo di   bat­taglia  alla  fine di  un combattimento dove  tutti  sono   mor­ti. In quel pentacolo che ti ho regalato c'è scritto : "Quis ut Deus?". Una domanda legittima, quella di chiedersi chi può essere simile a Dio, non trovi?

Mi  pareva d'impazzire. Quella donna era sedotta da feticci per­versi,  prodotti da menti morbose. Menti che, autoconvincendosi di avere dentro una qualche potenza irresistibile, coltivavano, a loro volta,insane  opere di  seduzione nei  confronti di uomini sprovveduti. .Notando la mia irritazione silenziosa proseguì a voce più bassa, ma inesorabilmente.

- E allora, chi e` simile a Dio se non Satana? E non sono forse due   diverse facce della stessa meda­glia?

Ero sempre piu` irritata. Piu` sono cattolici , pensai, e piu` ritengono di avere  soltanto  loro il privilegio  di poter  dissertare su Dio Satana e il mondo, come se detenessero il segreto della storia.Ma lei si precipitò ‑ come  leggendomi  nel pensiero ‑ a dirmi che non era affatto cattolica e che non lo sarebbe mai sta ­ta. Poi,  con una  strana luce  negli occhi , mi chiese se ero riuscita a decifrare la cantilena creola. La cosa mi gettò nel panico e ci fu una lunga pausa, prima di  riprendere il dialogo. Le chiesi come aveva saputo. Mi rispose che gliene aveva parlato Denise.

‑ Non  e` possibile! ‑ esplosi con  tutto lo  stupore di  cui ero capace.

‑ Denise, vieni qui, cara! ‑ Erzulie la chiamo` con un tono gen­tile ma imperioso.

Denise si precipito` correndo con in mano un biscotto. Erzulie le chiese di recitare il ritornello che sapeva e lei lo fece ridendo e inciampando ogni tanto su qualche parola.

‑ Ora ‑ disse Erzulie con aria compiaciuta ‑ Denise lo traduce in italiano, vero?

E Denise incomincio`senza batter ciglio:"Ezili KaliKae / o che Loa severo / Ezili tu chiedi un maiale / ed io te lo daro` / Ezi­li tu  chiedi un capretto a  due piedi / dove potro` prenderlo per offrirte­lo?". Allibita , chiesi ad Erzulie come mai Denise ne fosse a conoscenza e che animale fosse  un capretto a due piedi.

Ma  non  ebbi  risposta  ne` dall'una ne` dall'altra, perche` mi svegliai, sorpresa del fatto che mi  fossi  addormentata. Denise era seduta accanto al mio letto mi diceva che aveva fame. E anch’io. Nei giorni immediatamente dopo l'accaduto caddi in uno stato di forte prostrazione.La sensazione di avere il cervello torbido insieme alla co­scienza della presenza di qualcuno  che rassettasse la camera senza rumori indiscreti e regolasse, a suo talento, il riscaldamento. Avevo fredo e la febbre alta. Sentivo la voce fievolissima di Erzulie che mi curava intiman­domi di non muovermi dal letto. Con  un indescrivibile  sforzo, mi  costrinsi a volgere  lo sguardo dalla sua parte. E vidi  la sua faccia, pallida e confusa, sotto un paio di lenti cerchiate d'oro. Non  sembrava piu` lei, pareva in procinto di allontanarsi  non solo da  me, ma da tutto. Ancora un attimo e ogni cosa avreb­be perduto il suo senso.

E infatti, d'un tratto , mi trovai  catapultata in  una stanza domina­ta da un enorme tavolo di marmo su cui era ammucchiato un numero imprecisato di bottiglie. Verso il fondo, in un angolo, Denise teneva in  mano due piccioni e sedeva alla destra di un  uomo molto alto e scuro di carnagione che, in un lamento lugubre e sommesso, sussurrava qualcosa in una lingua a me sconosciuta. At­torno a  mia figlia piano piano incomincio` a formarsi un cerchio di persone, ognuna  con il suo mortaio in cui  batteva, con colpi ritmati, i pestelli che venivano probabilmente usati per tritura­re  chissa` quali sostanze. L'illuminazione  era scarsa, ma  non avevo paura, temevo solo per Denise. Col tramonto  del sole ci si immerse in un religioso silenzio ed alla bambina furono lavati piedi e gambe. Le tolsero i  piccioni  di mano  e li  deposero in un recipiente dove li annegarono  ritualmente, quasi  con  dol­cezza. Il  recipiente  fu chiuso con un coperchio e quindi conse­gnato a Denise   affinche` lo appendesse  ad  un  albero che  si trovava in mezzo ad un'altra grande stanza. Denise  non  prote­sto` e fece  quanto  le  era  stato  chiesto. L'albero  era ca­rico di oggetti appesi ai suoi rami: bottiglie, barattoli e per­fino sedie quasi a grandezza naturale. Mia figlia  fu poi accompagnata in un giardino semispoglio dietro la casa dove fu lasciata proseguire da sola. Io mi misi a gridare  a voce  altissima nel tentativo di fermarla, , ma  nessuno  mi sentiva, neanche lei. Si fermo` solo quando riuscii a centrarla la sua gamba sinistra con un sassolino. Tornò indietro di qualche passo e mi prese per mano di­cendomi che doveva andare dalla "croix". Ne compresi il signifi­cato solo quando, verso l'estremo margine del  giardino, delimi­tato da  qualche  paletto di  legno, vidi delle tombe sopra le quali s'intuivano dei  crocifissi  piantati capovolti. Denise si fermo` improvvisamente e m'indico` l'unica  croce non capovolta mormorando a bassa voce: " Regarde, maman, Veve` di Guede`, ma­man!". La croce non era affatto una croce cristiana.  Se ne  in­tuiva il  simbolo, probabilmente  utilizzato in alcune ritualita` funerarie.

 

***

Mentre Denise  si avvicinava  alla croce con  passo svelto  e per nulla impaurita, mi  trovai dietro le spalle Erzulie che, li­sciandomi dolcemente il polso, tentava di trattenermi. Mi diceva che Denise stava   andando verso la morte, ma che dovevo  la­sciarla andare, che Veve` di  Guede` la stava chiamando. Le chie­si chi fosse Veve` di Guede`, ma non ebbi alcuna risposta.

Svegliandomi e fuggendo via così da quel sogno orribile, intuii d'un tratto come fosse  impossibile definire quella donna. Io e Denise la nominavamo  molto frequentemente nei nostri discorsi, ma sembrava in realta` staccata dalle circostanze, dai luoghi e  dagli oggetti. Perfino dal cibo: sembrava non si alimentasse mai.

Eppure era divenuta ormai il mio specchio. Non appena incomincia­vo a parlare davanti a quello specchio, a gettare la` dentro me stessa, o  ad allontanarmene  a piccoli  passi per  poi tornargli incontro, sentivo di potermi afferrare, di riconoscermi per quel­lo che ero. Tuttavia non rinunciavo a tentare di carpire in lei un po' di quotidiano, tanto che la pregavo ogni tanto di farmi en­trare in casa sua. Ma non avevo successo, lei prometteva e invece poi, sul punto di farmi vedere dove viveva, mi respingeva con delle debolissime motivazioni:" Oggi è nel totale disordine, mi vergognerei!" Mi mostravo seccata, ma lei già pensava ad esco­gitare qualcosa di meglio per la volta successiva in cui le avrei chiesto la stessa cosa.

Di se stessa non raccontava mai nulla. Strano. Dopo quel sogno mi mostrai più fredda e lei se ne accorse. Così non lasciò passare un paio di giorni e mi disse che dovevamo parlare. Io, che non ho mai amato i rapporti morbosi, le risposi che non avevo tempo. Fu quella frase " Le cose stanno volgendo al male!", che mi fece decidere a darle colloquio.

‑ Tutti noi andiamo avanti a tastoni nel mondo, ‑ esordi` la­sciandomi intuire  dal tono di voce che capiva la mia insofferen­za ‑   ma un giorno o l'altro dobbiamo pur conquistare la posi­zione  eretta!

‑ Smettila  di parlare con i tuoi soliti enigmi! ‑ la incalzai ferocemente .

‑ Giulia,  ti  ricordi  quando mi  chiedesti  del capretto  a due teste?

Mi scrollai immediatamente dallo stato di abulìa.

‑ Era un sogno, tu non puoi sapere!

‑ Se vuoi, posso chiarirti ogni cosa.

Non volevo suppor­re nulla di ripugnante, sicche` acconsentii a procedere.

‑ Il capretto a due  piedi  allude ad   un  sacrificio umano e conferma la fama di divoratori di uomini   di  cui spesso  sono accusati  i Loa Petro. La  sacerdotessa di   colore  che  tu hai visto  nell'atto di  sgozzare un maiale, non   faceva altro che rendere onore ai Loa.

Ora procedevo a tentono.

‑ Vuoi  dire che per  questi riti  satanici vengono  ammazzati  appositamente  degli   esseri umani?

‑ Sacrificati.

Inorridii. Lei continuò sommessa.

‑ Ma tutto cio` avviene, io  credo, perche`  nello  spirito di queste  religioni non vi   e` una  netta  distinzione  fra male  e bene , come  in   quella   cristiana. L'offerta  rituale e` un mezzo per sciogliere un incantesimo o per fare un maleficio. Indiffe­rentemente.

E mi guardò dritta negli occhi.

‑ Ma chi sarebbe l'acquirente?

‑ Non ha importanza, Giulia. Sacerdote,  mago, sungan  o semplice uomo. Agisce secondo la morale del Pantheon Vaudou, dove il concetto di bene o male non  esiste. O  forse e` superato. O forse   segue una legge morale che ci sfugge!

‑ Ma che morale! Anche loro, come tutti i credenti, hanno comunque l'esigenza  di mettere  distanza  fra  cielo  e terra! Ma quando la smetteranno con questa ostinata voglia di separare Dio dagli uomini!

‑ Ma non tutti la pensano così! Quello  spazio metafisico  che l'africano o  l'europeo pone fra  se` e il suo Dio e` intoccabi­le, non puoi toglierglielo! Così come non potrai mai dividere De­nise   dal concetto magico e religioso  del sortilegio. Anzi, ti consiglio di non provarci mai. E' la sua cultura, le sue radici... Mi  sentii raggelare. Non  riuscivo a figurarmi come una bimba di cinque anni  potesse  racchiudere in se` il peso di  tanta storia e di tanto tormento. Pensa ‑ dissi a Erzulie ‑ che da sola non ci sarei mai  arrivata. Ho  girato in  tondo per due anni su qualcosa che non capivo.

‑ E di colpo ‑ m'interruppe ridendo con una risata esplosiva, irritante ‑ ti  sei trovata  in mezzo  ad  uno spiazzo, non  e`vero?

‑ Che c'e` da ridere?

‑ Rido perche` non e` Denise l'origine delle tue  orribili  esperienze. Ma  proprio tu.

‑ E  i giacinti? Le conchiglie, gli insetti   morti, le  croci  capovolte?

Ero  al colmo  della  disperazione. Così  Erzulie incominciò pazientemente ad inoltrarsi in una spiegazione complicatissima di cui continuavo a non capire la sorgente.

‑ Ti voglio rac­contare una favola   che ti puo` in parte aprire la mente, vuoi?

Ormai ero sotto la sua protezione.

‑ Agli albori dell'umanita` un cacciatore africano  di nome Gbito Aya era, secondo la leggenda vaudou, considerato impareggiabile nell'uso   dell'arco e della freccia. Gli animali della foresta,allora graziati dal dono della parola,  lo  temevano moltissimo. Un   giorno Gbito, inseguendo la selvag­gina, fu sollevato da una potente  folata di  vento che lo depose fra la folta chioma di un enorme  albero. Accovacciato  fra i  rami, si trovo` ad ammirare   stupito i  balli, i canti e le mu­siche di una varieta` incredibile  di quadrupedi che , accorgen­dosi della sua presenza, incominciarono presto ad agonizzare e poi morire.   Alcuni  giorni  dopo, il  cacciatore, ritornato  nella  foresta, scorse  una figura  che desto` in lui un  sen­timento fino a   quel momento sconosciuto: la paura. La figura   era  Aziza, il genio della foresta. E Gbito, che era stato pre­scelto dal genio per essere messo al corrente di arcani  segreti, si vide consegnata una palla nera dalle misteriose facolta`   ma­giche. Ma  affinche` non venisse svelato questo segreto agli   iniziati, prima  di svanire nel nulla, il genio  della foresta   pretese  dal cacciatore  il silenzio. E a suggello  di  questo   patto, dopo aver inciso la mano del cacciatore fra il pollice e   l'indice, ne  succhio` il  sangue, esigendo  da Gbito la stessa   cosa. Questo "primo patto di sangue", fu formalizzato realmente   per la prima volta il 22 Agosto del 1791.

Avvertii  in me una  tremenda  stanchezza. Non capivo come avessi fatto a giungere fin li`, come non avessi avuto paura. Buttai lì senza riflettere che quella storia avrebbe potuto essere la sto­ria dell'uomo, per esempio l'innalzarsi della  natura animale fino alla conquista della posizione eretta, quella umana. Ma avevo soprattutto avevo paura ed Erzulie lo sapeva.

‑ Chissà  Aziza  si accorse  che fra   tutti gli  animali della foresta Gbito era l'unico in grado di   comprendere il linguaggio della natura e così lo prescelse per l'iniziazione!

‑ Come tu hai scelto me?

‑ Non so. Chissà.

Il dialogare in solitudine con una si­mile compagna  mi dava coraggio. Tollerava perfino la mia reti­cenza davanti al fantastico, purchè dimostrassi di non aver paura della verità.

Dopo la fiaba di Aziza mi pregò di aprire la mano destra ed io eseguii l'ordine.Mi chiese di appog­giarla sul tavolo, distendendo bene tutte le dita. E lo feci. Mi guardò sod­disfatta e con un gesto brusco mi fece volgere il  palmo  della mano destra, ben tesa com'era, verso di me.

Fu allora  che lo vidi. Era un taglio netto e ancora sanguinante. Sembrava che qualcuno avesse  inciso  la mia mano fra il pollice e l'indice, esattamente come nella leggenda di Aziza.

‑ Non vi e` nessuna cosa  al mondo che ,  con   la sola potenza della fantasia, si possa raffigurare perfetta. E tu, invece, pre­tendi  perfezione e razionalita` da tutte le cose, mia cara Giu­lia!

E nel  momento in cui pronunciò queste parole sembrò, ai miei occhi, una  creatura effimera. Un volto d'altri  tempi, dietro il quale l'universo o quel­lo che io pensavo tale, si condensava e diventava leggerissimo. Veniva lambendo, lievissima, la  mia  certezza in uno scenario universale compatto. Cosi` tutto si  disgregava in mille, milio­ni, miliardi di verita` o supposizioni.

‑ L'hai fatto tu quel patto di sangue, non tua figlia, Giulia.

Annuii meccanicamente

Bambara! ‑ mi sussurro` prima di  volare via.

‑ Bambara?

Stava sparendo dietro la porta.

‑ Legame. Legame religioso. Indissolubile!

 

***

A ripensarci, dottor Krupp, mi sembra tuttora  inspiegabile come quella  luminosa domenica d'ottobre potessi io  avere l'impulso co­si` irrefrenabile di andare a rovistare nel posto dove fiorivano i giacinti.Denise era  sparita da parecchi  giorni ed io  non avevo avuto la forza di  cercarla. La  sua assenza non  mi  disturbava. Anzi. Da quando  se n'era  andata, non mi  capitava piu`  di svegliarmi nel cuore della notte in preda all'ansia. Fin dall'inizio, nono­stante l'affetto, avevo avvertito come un soffio di vento perma­nente sul suo viso che prima o poi me l'avrebbe portata via, chissa` dove. Forse era destino, non ci saremmo mai comprese.

Erzulie si era  ritirata nella sua casa e da alcuni giorni  non usciva  nemmeno per  dare un'occhiata al  giardino. Ma non ne soffrivo. Avevo bisogno di stare sola e di non discutere. Del re­sto Erzulie pareva davvero una creatura d'altri tempi. Avrebbe potuto prima o poi ritornare nel suo secolo e non me ne sarei meravi­gliata. Co­me di chi passa di li` per caso, si  trattiene per sbrigare  al­cune  faccende e poi  parte per altri luoghi.

D’un tratto mi sentii liqui­data  e libera. Perfino la morte di mio marito, quella mattina, mi faceva pensare ad un'eclisse avvenuta decine di anni fa.

Eppure quella scena mi fece ripiombare nel baratro.

Quando la  vidi li`,  mezza sepolta  e rovesciata, mi torno` alla mente la scena del cimitero con le croci capovolte conficcate ma­lamente nel  terreno. Non mi ricordavo  dove avessi  visto quella scena, ma ero sicurissima di esserne rimasta colpita. Si trattava di una bottiglia ripiena di un liquido non molto denso ma indeci­frabile alla sola vista. Solo  quando lo  estrassi e ne tolsi il tappo quasi marcito, mi resi conto che l'intruglio era addirittu­ra commestibile: sale, aceto e pepe. Coprii il  buco come  fanno gli animali con i  propri escrementi, quasi  con pudore, e  por­tai la bottiglia  in  casa  con l'intenzione  di analizzarla  con  piu` attenzione.

Mentre rientravo, pensando che solo Denise avrebbe potuto fare una cosa del  genere, fui  attratta da un foglietto  probabilmen­te appoggiato da qualcuno sul tavolo della sala, durante la mia ispezione in giardino. Sotto il messaggio molto secco di Erzulie che mi ordinava di leggerlo, c'era un libercolo piuttosto consu­mato  con un  segnalibro che stava lì ad indicare un  capitolo dal titolo "Il  cuore trafitto di Ezili". La pagina iniziava  con  la solita cantilena creola sul  capretto a due piedi. Ma fu soprattutto  il nome di Ezili Kalika, dea  onorata con  tale rito, che  attrasse la mia attenzione piu` di ogni altra cosa. E, guardando nella  nota in  fondo pagina , non fu difficile capire l'inganno. Ezili Kalika era Erzulie Freda Dahomey, il cui "veve`" o  simbolo  e` rappresentato da un cuore trafitto. Suggestiva analogia, considerato  che  Erzulie ‑ come spiegavano bene le  pagine successive ‑ era  la figura  del Loa dell'amore; figura,  peraltro, non  facile da individuare  per via della sua doppia personalita`. La stessa iconografia ne  met­teva in risalto la doppiezza: madre fertile e sacrale nell'acce­zione positiva; e, viceversa, donna ambigua e bellissima in quel­la  piu` negativa. A spiegazione di  questa seconda  accezione si  narrava di lei come divinita` acquatica, capace  di trarre in in­ganno gli uomini fino a farli morire, assumendo diverse forme, dal fiore al suono, alla sirena.

Pensai immediatamente al sogno del giacinto d'acqua e dell'annegamento nel  gorgo del  fiume.

Com'era stato possibile tutto questo?  Chi era Erzulie: una ver­gine cristiana o un'Afrodite greca? Ne`  potevo credere a  tra­sformazioni metafisiche dei fenomeni e delle  forze della natura. Forse era solo la pulsione dell'uomo verso il  sovrannaturale , quella che metabolizzava divinita`, patti di sangue e pentacoli.

Mi  sedetti  con  la bottiglia  in mano  in  attesa  che qualcosa accadesse.

 

***

Una  cosa  soltanto era rimasta  a  testimoniare  l'accaduto  del giorno  prima: un  lieve dolore alla  testa. Mi  pareva di essere un'ombra d'acqua.  Erzulie  si  ergeva  confusa e  immobile  vi­cino al mio letto ed io  mi  sentivo davvero  priva di qualsiasi energia, come alla fine di un estenuante tragitto. Poi mi accorsi delle lacrime sul viso di Erzulie e intuii che avrebbe dovuto an­darsene via per sempre. Cercai di dirle sottovoce un "Lo sapevo, l'avevo indovinato", ma non mi usciva piu` alcun suono.

Ancora qualche attimo e avrei comunicato solo con il movimento delle labbra.Non avevo più voglia di ascoltare nessuno, ma lei pareva avesse voglia di parlarmi ancora. Non potevo interromperla, sentivo che non avrei piu` avuto la forza per interrompere nessu­no.

Ci fu una lunga pausa.

‑ Davvero non ti ricordi?

Ricordavo  vagamente  di  avere perduto Denise ad un  certo punto  del tragitto.

‑ Tua figlia  non  poteva  piu` vivere  con te, Giulia.

- Denise  stava benissimo  con me. Io soppor­tavo perfino le sue stramberie.

‑ Le sue stramberie erano solo una proiezione della tua fantasia.

Erzulie  sembrò  leggermi nel  pensiero, Ed io, in realtà, non muovevo neppure piu` le labbra.

‑ In realtà, Giulia,  Denise  se  l'e` portata via l'assi­stente sociale. Un giorno   hai  perfino tentato di  ucciderla non   ricordi? Guarda, ti sei perfino fatta un taglio nella mano, fra il pollice e l'indice mentre cercavi di ferirla con una bottiglia mezza rotta! E lei, povera bambina, continuava ad avere quelle febbri nervose, aveva paura di te, Giulia!

Impossibile, quello era stato un patto di sangue. Negai, dissi che era lei che mi voleva uccidere.

‑ Ma ti sembra  possibile, Giulia , che  una bambina  di cinque anni possa essere stata capace di tutto questo?

Sì, se fosse stato il veicolo di qualcuno, magari della stessa Erzulie.

‑ Giulia, io ti sono servita semplicemente da alibi.

Ma  allora tutti i  discorsi che  avevamo fatto insieme, tutte le sue divagazioni su Dio e la  conoscenza del mondo? Erzulie era la mia migliore amica, le volevo  bene, come  poteva essere  solo un alibi?

‑ Come si puo` voler bene ‑ fece eco lei ‑ ad uno spettro,  in uno stato di nevrosi ossessiva!

Nevrosi  ossessiva. Mi ero inventata forse tutto?

 - E Aziza, Gbi­to, la sacerdotessa di colore? E il  capretto  a  due piedi, il sacrificio umano     destinato al Loa dell'amore Erzulie da parte di Denise? Tutti personaggi fantastici? Come  avrei potuto.

- La mia voce, un grido.

- Eri un'antropologa, Giulia. Hai vissuto a lungo a Couto­nou  e ad   Haiti per le tue ricerche sulla religione vaudou, non ricordi? Li` hai conosciuto e sposato tuo marito e deciso con lui  che avreste  adottato una bimba di colore. Tu non potevi avere figli.

Vagamente ricordavo la morte di mio marito e com'era avvenuta.

‑ Quando mori` tuo marito uscisti   di senno. Vivevi  di feticci che  nascondevi  giornalmente  in giardino, nell'aiuola  dei gladioli. Di  Denise a un certo punto non ti curasti  piu`, non le davi piu` nem­meno da mangiare. Poi  cadesti in   uno stato di amnesia. Per questo ora ti trovi qui.

Ma  allora dove mi trovavo? Improvvisamente mi sentii padrona del suono della mia voce  e chiamai urlando Erzulie. Ma lei non c'era piu`, era  volata  via e probabilmente non sarebbe piu` tornata.

Quando aprii gli occhi  vidi attorno al mio letto tre  uomini in camice bianco. Uno  di loro  era seduto proprio accanto a me e mi guardava  intensamente.

- Dottor Krupp, Giulia, piacere.

Poi si rivolse ai due dottori in piedi con un leggero accento straniero.

- La te­rapia  con l'ipnosi  ha funzionato.

Ero esausta, ma ebbe lo stesso il coraggio di chiedermi se mi ricor­davo  finalmente chi fossi. Feci cenno di sì.

‑ Sono tecniche ormai in disuso queste, eppure danni dei risultati apprezzabili.

L'esplicitazione  della sua soddisfazione era chiaramente diretta ai due medici che affermavano di volermi curare con l'ipno‑analisi.

‑ Tanto va ‑ disse uno dei due in piedi ‑ in una   trance profon­da, senza problemi.

Ma Krupp  parve insofferente all'irruenza dei due e li spedì fuori dalla camera con la scusa che io dovevo riposa­re.

Sicuramente le loro cure mi fecero bene. L’equipe di Krupp e Chertok  diedero buoni  risultati. Ma non riuscii piu` ad  entrare in quello stato immoto di grande lucidità o di grande sonno. Le profondita` delle  trances erano soggette a diverse  fluttuazioni, anche  du­rante una  stessa seduta. E  mano a mano che associavo sempre piu` spontaneamente gli  avvenimenti, le trances diventavano via via sempre piu` leggere. Certe  volte ritornavo progressivamente allo stato di  veglia continuando a produrre sensazioni che re­stavano segnate dalla trance.

E comunque ero tornata ad  essere  Giulia. Un'antropologa milane­se in pensione, vedova e segnata da una brutta esperienza di isteria.

 

***

Il  ritorno a casa  fu meno drammatico di quanto mi aspettassi. E l'affetto di mia sorella, rinverdito e messo alla prova duramente da questo avvenimento, mi fu di grande  aiuto. Era quasi  tutto a posto, se  solo lo  avessi  voluto. L'analista  un paio di  volte alla settimana, un'agenzia matrimoniale per tentare qualche in­contro e la ripresa  del lavoro da antropologa. Avevo solo 44 anni, Dottor Krupp.

Spesso pensavo a Denise. Avrei voluto  rintracciarla, spiegarle tutto. Invece nessuno me l'avrebbe piu` fatta vedere, lo sa­pevo. Ma l'assenza piu` fonda era  legata a Erzulie, il bizzarro personaggio fantastico creato dalla mia incredibile immaginazio­ne.  La sua inesistenza  rendeva la mia vita senza possibilita` di scampo. Erzulie era uno splendido filtro tra me  e la realta`, non avrei mai potuto separarmene definitivamente. Se non ci fosse  stata lei, probabilmente  mi sarei data subito la morte. Mi chiedevo se l'analista, con il  quale parlavo spesso di lei,  mi avrebbe  comunicato  prima o poi  di chi veramente si trattasse. Chi era, perchè cosi` reale, perche` mi aveva abbandonata. Non osavo nemmeno guardare il giardino adiacente al mio  e che avevo pensato  suo. Vedevo la  casa abitata, la  notte con le lu­ci accese e il giorno con il  rumore dei piatti. Provavo a deli­neare il volto di chi  quotidianamente si aggirava per quei "mu­ri" che, a sentire mia  sorella, erano rimasti disabitati per molti anni. Ma non ci  riuscivo. Tutto era sovrastato dal viso gigantesco di Erzulie, non potevo immaginare nessun  altro che avesse potuto entrare ed uscire di li`.

Quando ero colta da  crisi di angoscia l'unico sollievo pa­reva il giardinaggio.

Assolato di mattina e all'ombra di  pomeriggio, in quel  giardino cresceva qualsiasi cosa io  seminassi, come per uno strano bene­ficio. Partita mia sorella, me ne occupai a tempo pieno. La­sciai intoccata solo l'aiuola dove erano  stati piantati i gladioli.

Un giorno di fine primavera, mentre travasavo in un recipiente grosso di terracotta delle  piantine  di  basilico, conobbi il  mio anziano vicino di casa. Il primo incontro fu superficiale, ma mi colpì perchè, solo in quel  momento, mi colsi ad ammettere na­turale la presenza di un'altra persona, in quella casa, che non fosse Erzulie.

Le crisi di  angoscia  piano piano si diradarono  e  decisi così di prendermi  carico dell'aiuola. Quando iniziai a provare  di togliere  le sterpaglie,  ero consapevole  di quello  che  avrei potuto  trovare. Qualcuno mi aveva  avvertita che usavo seppellire li` oggetti di vario genere. Ero pre­parata, pronta ad accettare di me anche quella brutta faccia. Cosi` trovai un mucchio di  chiodi  lunghissimi, gli stessi che, nel mio delirio, avevo  visti sputare  dalla bocca di Denise. Li avevo racchiusi in un fagottino di stoffa dal colore non piu` in­dovinabile e deposti in una  buchetta lunga circa  dieci centimetri. Chissà, pensai, dove ero riuscita a trovare dei chiodi così lunghi. Dissotterrai  il fagottino, mossi  la  terra senza tap­pare il buco e buttai tutto nel bidone della spazzatura. Ma l’angoscia di nuovo mi assalì. La consapevolezza di poter rientrare in quella insana girandola, senza poterne piu` uscire.

Una mattina di sole, dopo le giornate  d'angoscia vissute a causa di  quel  ritrovamento, uscendo  in  giardino, rividi, dall'altra parte del muretto, il mio  vicino  di casa. Mi avvicinai pensando che una chiacchierata con qualcuno non mi avrebbe fatto male. Stava radendo tranquillamente il prato con un ta­gliaerba rumorosissimo e probabilmente  non si era accorto di me. Lo sorpresi sorridendo e facendo appello al mio tono di voce piu` allegro per chiedergli se aveva bisogno di aiuto. Si guardo` in­torno come se  non riuscisse a capire da dove provenisse  quella voce. Poi spense  il tagliaerba  e, trovandomi finalmente con lo sguardo, mi chiese  di riformulargli la domanda. Ma a  quel punto il ghiaccio si era rotto e non gliela ripetetti. Preferii chieder­gli se gli piaceva il giardinaggio, se lo trovava molto faticoso. Era vecchio e aveva gli occhi buoni. Mi sentii, per un attimo, confortata. Mi rispose che aveva trovato il giardino  in condi­zioni pietose e che se non toglieva prima tutte le erbacce non avrebbe potuto  piantarci nemmeno un fiore. " Altro che giardi­naggio!‑ disse ridendo un po' sudato.

Cosi` la domanda mi venne fuori di getto, a freddo.

- Ha mai conosciuto la persona che vive­va qui prima di lei?

Si  asciugo` la  fronte con un  fazzoletto enorme che tiro` fuori dalla tasca dei pantaloni.

‑ Lei no? E` andata via nemmeno un anno fa!

La curiosita` venne meno repentinamente. E non vi fu in me che il  terrore. Risposi  alla sua  domanda facendo­gli  cenno di no.

‑ Era una donnetta di mezza eta`, con gli  occhi chiari e gli occhiali , dall'aspetto energico, pero`!

E sorrise  come se gli fosse  venuto in mente qualcosa di buffo. E aggiunse:" Pensi che, oltre a  lasciarmi in eredita` un'aiuola   a sette lati perfettamente  coltivata, mi ha regalato la riproduzione in rame di uno strano medaglione con una scritta in latino "Quis  ut   Deus?". Guardò  il cielo.

- Unica, quella donna!".

Feci indescrivibili  sforzi per non correre subito a cercare quel medaglione che aveva regalato anche a me. Non c'erano parole at­te ad  esprimere  e a  spiegare l'accaduto. Riviverla, un'altra volta, quella realta` che mi aveva condotta alla follia, non  era piu` possibile. Non mi  sentivo piu` in forze per affrontare tan­ta confusione. Mi congedai  da lui  frettolosamente.

Erzulie era  esistita, ormai era  chiaro.

Cercai per  giorni e finalmente  trovai il pentacolo nell'aiuola dei gladioli. Poi caddi in uno stato di prostrazione  totale. Mi resi conto che  avrei dovuto vivere in un mondo in cui sarebbe stato difficile distinguere la realtà dall’im­maginazione.

Il suicidio, Krupp, venne qualche tempo dopo, quando mia so­rella, tornata per darmi un po' di conforto, mi ribadi` senz'om­bra di dubbio, che non esisteva alcun  vicino di casa. Che la casa era disabitata da almeno quattro anni.


Nicoletta Poli, ricercatrice IRS (http://www.irs-online.it/), filosofa, scrittrice e poetessa. http://psicofilosofia.jimdo.com/