Irma Fiorentini
Tiradritto
Considerata la dimensione di Tiradritto era piuttosto anomalo che vi fosse una stazione e ben due binari. Il paesino si trovava nel bel mezzo della campagna, sulla direttrice che univa due grandi città, sicché erano in tanti a passare per Tiradritto, ma ovviamente, nessuno si fermava, neanche i treni.
Bisogna ammettere, comunque, che il luogo godeva di una certa notorietà di nicchia, perché l’osteria del paese era gestita dalla sfoglina più abile che la bassa padana avesse mai conosciuto e da suo marito, l’oste più generoso che gli avventori potessero desiderare. I clienti abituali erano camionisti all’ora di pranzo, paesani dopo cena e Delvino, a qualunque ora. Forse a causa del suo nome, a trentatre anni, fatalmente, era già diventato l’ubriacone del paese. Era un tipo segaligno dai capelli ispidi e gli abitanti di Tiradritto lo consideravano un fannullone, buono solo a pensare, ma tra l’oste e Delvino esisteva un legame intimo e profondo perché Delvino invidiava all’oste la fantomatica riserva speciale e l’oste invidiava a Delvino il nome.
Arrivava verso le dieci di ogni mattina per chiacchierare con Elvira mentre preparava le tagliatelle e aveva sempre qualcosa di diverso da raccontarle, un nuovo pensiero ogni volta e per lei era come un figlio. Rimaneva tutto il giorno seduto là, al bancone durante l’inverno, fuori, all’ombra dei pioppi nei mesi più caldi.
Quell’anno Delvino era uscito presto, un caldo insopportabile era arrivato improvvisamente ad inaridire la terra e a tormentare i paesani. Durava già da più di un mese, trentacinque gradi fissi senza un goccio d’acqua, escludendo l’umidità quasi densa in cui tutti boccheggiavano. Il sindaco ordinò lo “stato di all’erta”. La radio invitava ad un parsimonioso uso dell’acqua corrente, ma a Tiradritto, dalla fontana della piazza non usciva una goccia da oltre una settimana e anche i pozzi cominciavano a prosciugarsi. Sul finire del secondo mese di arsura la faccenda cominciò a farsi seria, i raccolti erano quasi del tutto rovinati, tre ultracentenari erano passati a più fresca vita, alcuni paesani davano i primi segni di allucinazione.
Il sindaco decretò lo “stato di emergenza”, ma la verità era che si sentiva del tutto impotente perché in una settimana la temperatura media era salita di altri due gradi e la radio continuava a non promettere niente di buono. Stava già meditando di proclamare lo stato di “calamità naturale irreversibile”, quando Delvino intuì che era il momento di pensare a qualcosa di nuovo anche per il sindaco.
Fu la sola volta in cui osò domandare all’oste una delle sue rare bottiglie, per quel problema era necessaria un’ebbrezza speciale, da riserva. L’oste non poté negargliela e Delvino ebbe il garbo di non bere nulla durante il giorno per dedicarsi alla bottiglia rivelatrice solo verso sera, in privato, con intima commozione, stomaco pieno e mente sgombra, pronto a ricevere la risposta al quesito.
La notizia della sua eccezionale sobrietà fece presto il giro del paese e il giorno seguente l’osteria brulicava di curiosi già alle dieci del mattino, sindaco compreso. L’oste parlò della bottiglia e della rivelazione, ma Delvino non si fece vivo. L’attesa divenne impaziente, i paesani trascorsero la giornata tra la piazza e i pioppi dell’osteria sperando di vederlo apparire da un momento all’altro e avere la soluzione alla crisi.
Finalmente, la sera molto tardi, Delvino apparve ai curiosi, arrivò camminando lentamente, in uno stato di assoluta calma, si fermò osservando la piccola folla e dopo un prolungato silenzio disse soltanto una parola: “l’Incantatrice”.
I paesani sgranarono gli occhi e aprirono la bocca senza emettere un suono, fu illuminante. Illuminante e ovvio insieme, perché nella calura infernale si era disciolto con il sudore anche il ricordo di un antico rito, usato per invocare la pioggia e il buon raccolto, praticato dall’intero paese in un passato non troppo lontano. Un culto dimenticato e sepolto trentatre anni prima insieme a sua madre che l’aveva appena messo al mondo. Sua madre, l’Incantatrice. Morta troppo presto, aveva portato tutto con sé, quello che restava era nella mente di Delvino, una memoria confusa, che nuotava e galleggiava nell’ebbrezza alcolica.
La notte fu dedicata ai preparativi, l’oste raccolse in decine di casse le bottiglie della riserva speciale, Delvino cercò una grande radura e un platano alto, preparò la catasta per un falò e ognuno dei paesani pensò a ciò che aveva di più caro e si procurò qualcosa che ne fosse parte.
L’indomani nessuno lavorò e all’imbrunire si raccolsero tutti sulla radura, ognuno con il proprio amuleto. C’era l’intero paese, giovani vecchi, bambini, il sindaco. C’era chi aveva portato un anello, chi un reggicalze, chi una cartolina, qualcuno aveva in mano un mattone, altri una ruota di bicicletta, alcuni esibivano un bel ciuffo di capelli e altri il ciuffo di una coda bovina, probabilmente la più anziana della stirpe.
Delvino zittì il chiacchiericcio con un ampio gesto del braccio, poi con un gesto altrettanto ampio accese il falò. L’oste cominciò a versare bicchieri di vino mentre qualcuno prese a suonare la fisarmonica.
In poco tempo tutti ballavano in preda ad un gioioso delirio alcolico. Ballarono per ore, senza fermarsi, alimentando il fuoco fiduciosi e felici, di tanto in tanto qualcuno alzava lo sguardo verso il cielo nella speranza di veder scomparire le stelle. Il ballo durò tutta la notte, nessuno voleva abbandonare la speranza, ma poco a poco i dubbi cominciarono ad insinuarsi tra la folla e a fare i primi caduti.
Era quasi l’alba, sulla radura decine di corpi esausti, sudati, sonnolenti, qualcuno guardava ancora verso il cielo, ma niente, nemmeno una goccia. Passò un’altra ora, musica e falò si erano esauriti stancamente, nel silenzio ora si udivano solo i grilli e una leggera brezza notturna.
Delvino rannicchiato sul platano non dormiva, ascoltava i grilli, ascoltava il vento e aspettava, aspettava, aspettava. Ebbe un fremito, qualcosa di fresco sul braccio, una goccia. Pensò all’Incantatrice, la vide sorridere, un’altra goccia. Si alzò ritto sul ramo e in pochi minuti le gocce divennero pioggia e la pioggia un temporale.
I paesani si risvegliarono, stupiti e increduli osservarono silenziosamente le grandi nubi rincorrersi nei bagliori dell’alba, poi esplose un boato, grida festanti di gioia incontenibile si mescolarono ai tuoni e ai lampi, e poi ancora danze. Qualcuno si spogliò per sentire la pioggia sul corpo, qualcuno si spogliò per lavare i vestiti e qualcuno si lasciò spogliare.
Fu il momento più memorabile che Tiradritto avesse mai vissuto. Delvino piangeva.
Ma qualcosa di orribile stava per accadere, una luce accecante colpì il grande platano, per un istante Delvino vide l’Incantatrice porgergli una mano, l’albero prese fuoco e il fragore che seguì segnò la fine della festa e della vita terrena di Delvino.
Piovve per giorni, piovve durante il funerale, piovve mentre il corteo attraversava la piazza e passava di fronte all’osteria. Qualcuno cercò con lo sguardo tra i pioppi, ma vide solo folate di pioggia, che cadde, incessantemente, ancora per due settimane.
Un mese dopo Tiradritto era tornato alla normalità, acqua dalla fontana della piazza, acqua nei pozzi. Nessuno, però, poteva dimenticare perché la pioggia era stata generosa, ma si era presa Delvino. Elvira non fu più in grado di fare tagliatelle, e il sindaco, una domenica mattina, osservando che nel piccolo stagno formatosi davanti a casa guizzava un pesce rosso, decise di far costruire un monumento in memoria del loro martire.
Fu nominata una commissione speciale e venne uno scultore da Roma che fu chiamato appositamente. Ci volle tempo, ma finalmente, in autunno, una grande statua con fontana fu posta al centro della piazza. Un corpo imponente e nudo, con tanto di corona e tridente e su quel corpo una faccia curiosa perché lo scultore era impazzito per ricreare da quella piccola foto sgualcita un volto appena credibile.
Ma il paese aveva il suo eroe e ai piedi della scultura c’erano sempre fiori, un bicchiere di vino ogni mattina e un giorno apparve anche un piatto di tagliatelle.
Tiradritto non conobbe mai più la siccità, spesso una pioggerella sottile bagnava i campi e gli orti. I cortili si trasformarono in giardini e le stagioni seguenti il caldo torrido non tornò, una brezza leggera accarezzava la cima dei pioppi, Delvino, grato e commosso provvedeva dall’alto.
Irma Fiorentini, titolare dello Studio d'Arte La goccia. Decoratrice, restauratrice e insegnante di pittura murale. Pittrice e docente di Pittura Filosofica presso la scuola Parresia di Bologna per consulenti filosofici. Vive e insegna a Monzuno, nella sua casa-studio sulle colline tosco-emiliane.