Diego Chillo
La globalizzazione della follia
Maude: “Io mi vorrei trasformare in un girasole più che in ogni altra cosa. Sono così alti e così semplici. Tu che fiore vorresti essere?”
Harold:”Non lo so. Uhm…Una di queste margherite, per esempio.”
Maude: “Perché?”
Harold: “Perché sono tutte uguali.”
Maude: “Ah ah, lo dici tu! Guarda: certe sono più piccole, certe sono più grosse, certe pendono a sinistra, certe a destra, certe sono bruttine perché hanno perduto i petali…sono una diversa dall’altra e si vede benissimo. Sai Harold, secondo me gran parte delle brutture di questo mondo viene dal fatto che della gente che è diversa, permette che altra gente la consideri uguale.“
Colin Higgins, Harold e Maude
Se da un lato la storia naturale è evoluzione e diversificazione (per quel che riguarda l’uomo, a partire da quel nucleo originario che abitava il Corno d’Africa cinque milioni di anni fa), dall’altro è in corso da tempo un processo di semplificazione, uno sforzo per rendere omogenee quelle preziose differenze che caratterizzano la varietà del genere umano. Un’inclinazione che la filosofia contrasta da sempre, cercando di riportare alla coscienza la molteplicità originaria, non accontentandosi di sintesi pur affascinanti che riducono la complessità in favore di una praticità di trattamento.
Per molti oggi il molteplice è sinonimo di caotico, e il caos è assimilato non solo alla follia che ci terrorizza, ma anche ai continui mutamenti della vita che non riusciamo a contenere né a conoscere del tutto.
L’esportazione delle teorie occidentali sulle malattie mentali è l’ultima frontiera della globalizzazione. I nostri modelli psichiatrici della depressione o dei disturbi dell’alimentazione si stanno diffondendo in Asia – da Hong Kong al Giappone all’entroterra cinese - e in aree del mondo non industrializzato. Possiamo supporre che tale espansione sia mossa dalle migliori intenzioni, ma i criteri con cui una cultura percepisce le malattie della psiche influenzano il disagio stesso. Ecco perché il tentativo di insegnare ad altre culture come pensare sta rendendo conforme persino il modo in cui si impazzisce.
La storia e i nomi dei disturbi mentali asiatici sono del tutto avulsi dai nostri, come è logico e comprensibile che sia. Eppure le diagnosi di “amok”, “koro” o “zar” sono trattate dagli psichiatri occidentali quali esotismi degni di poca o nessuna considerazione. Per non dire della possessione spiritica, cui vengono attribuiti i comportamenti anomali in molte culture, presto bollata come superstizione e sintomo di ignoranza. Da un certo punto di vista è un giudizio sensato, ma non per questo ci si può sbarazzare con tanta semplicità di una credenza spesso fortemente radicata e magari utile a interpretare la realtà.
Il celebre DSM (Manuale Diagnostico-Statistico dei Disordini Mentali) dell’Associazione Psichiatrica Americana è diventato lo standard mondiale per decidere cosa è patologia e cosa no; le industrie farmaceutiche statunitensi ed europee finanziano le ricerche e le conferenze dei luminari della psichiatria in giro per il mondo; i traumatologi occidentali si precipitano nelle zone colpite da disastri naturali o dalla guerra per portare aiuto psicologico nell’unica maniera che è loro congeniale. Così, la diversità culturale tra le concezioni della follia va rapidamente scomparendo.
In occidente abbiamo un’idea comune di quali eventi della vita possono produrre turbamenti psicologici, e concordiamo sul fatto che raccontare le proprie emozioni sia più utile che tacerle. Crediamo che l’approccio biomedico ai disturbi mentali garantisca una maggior precisione della prognosi perché le nostre medicine rappresentano l’apice della scienza moderna. In quanto esseri fragili, siamo certi che alcune esperienze emotive debbano essere trattate come malori e quindi sottoposte all’attenzione di un professionista. Insegniamo alle popolazioni in via di sviluppo come la salute mentale si possa raggiungere sbarazzandosi dei tradizionali ruoli sociali e impegnandosi in un’introspezione individualistica.
Nel saggio Pazzi come noi, Ethan Watters intende provare che i disturbi mentali non possono prescindere dall’ambiente culturale in cui si manifestano. E descrive quanto il modo occidentale di trattare le patologie della psiche, visto da mondi assai lontani, possa risultare bizzarro.
L’analisi di due casi di schizofrenia a Zanzibar in Tanzania, ad esempio, dimostra come le radici culturali influenzino il modo di affrontare un profondo disagio. Il racconto mette a confronto due famiglie, quella di Amina e quella di Shazrin: la prima ha reagito alla malattia in maniera tradizionale, mentre l’altra ha adottato modelli occidentali. In quest’ultimo caso, la famiglia ha sostituito gli assunti biomedici importati alle spiegazioni mistiche e spirituali, permettendosi una fin troppo franca manifestazione delle emozioni, una totale attenzione alla malattia e ai suoi segnali. Questa modalità sembra avere un decorso più incerto e lasciare segni più profondi rispetto agli approcci non condizionati dalla nostra autorità. Le famiglie tradizionali, più disposte a sopportare i comportamenti schizofrenici, alleviano lo stress evitando di concentrarsi troppo sulla manifestazione dei sintomi. Watters attribuisce lo scarto al modo in cui i familiari si rapportano all’ammalato: un’eccessiva attenzione ai segni del disagio e troppo coinvolgimento emotivo nella gestione del caso (comportamenti che l’autore definisce più volte “high expressed emotions”) risultano controproducenti.
Juli McGruder, l’antropologa di cui si narra nel capitolo, conclude che “dovremmo riconsiderare i nostri interventi in quelle parti del mondo che mostrano decorsi migliori di quelli che possiamo gestire noi nel mondo industrializzato”.
Per Watters il modello eccessivamente introspettivo e individualista proposto dalla psichiatria occidentale può essere inadeguato rispetto alle pratiche curative indigene; in alcuni casi potrebbe addirittura aggravare i problemi che maldestramente cerca di combattere. La psichiatria occidentale, insiste Watters, dovrebbe trarre qualche insegnamento dalle pratiche che hanno successo altrove. Eppure, come riconosce la stessa McGruder, non è facile trasferire alla nostra cultura quell’atteggiamento indulgente e remissivo che manifestano gli approcci tradizionali nei confronti dell’anomalia. I motivi sono vari, non ultimi la differenza di assetto sociale e la mancanza di una fede pervasiva capace di dare senso e sollievo. Allo stesso modo, se è vero che i rimedi ai quali ci affidiamo in Europa e in Nord America sono tutt’altro che inappropriati, non si può pretendere che siano validi ed efficaci ovunque, anche in realtà molto diverse dalla nostra.
Ne tengano conto – fatti gli opportuni distinguo – anche i filosofi pratici, che devono alla definizione stessa di filosofia il rispetto per qualsiasi forma di pensiero, anche proveniente da lontano. Benché la consulenza filosofica non abbia a che fare con le patologie della mente, occorre sempre comprendere la molteplicità con tolleranza, fuggire i dogmi e accogliere con spirito aperto e critico le istanze altrui. Non sarebbe coerente estinguere la ricchezza e la complessità dell’altro in categorie culturali livellanti e fisse, così come si deve rifiutare quella forma insidiosa di riduzionismo che tende a trascurare gli aspetti multiformi di cui l’identità degli individui si compone in favore di un unico standard globale che riconduce a sé la diversità.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
Ethan Watters , Crazy Like Us, The Globalization of the Western Mind, Constable & Robinson Ltd, 2010 (disponibile anche in italiano: Pazzi come noi, Bruno Mondadori, 2010)
Giuseppe Cacciatore, L’interculturalità e le nuove dimensioni del sapere filosofico e delle sue pratiche, in V.G.Kurotschka, G. Cacciatore (a cura di), Saperi umani e consulenza filosofica – Meltemi, 2007
Diego Chillo è un tecnico informatico laureato in filosofia. Frequenta il secondo anno della Scuola per Consulenti Filosofici Parresia accreditata da AICoFi.