Irma Fiorentini
Arte e Vecchiaia
Esiste un mondo parallelo al nostro che temiamo e non vogliamo vedere. È il mondo del declino, della malattia e della solitudine, è il mondo in cui, come scrisse Goya, “il sonno della ragione genera mostri”, è il mondo che si approssima alla morte.
In questo mondo vivono i vecchi, quelli veri, quelli che sentono e vedono male, quelli che non camminano, quelli che non sanno più nutrirsi o andare in bagno da soli, quelli che non riconoscono più i figli.
A questo mondo ci avviciniamo solo se costretti, con imbarazzo e repulsione. Possiamo assistere alla vecchiaia di nostro padre o nostra madre, ma non a quella degli altri, non a quella dello zio o del vicino, non a quella degli estranei.
E poiché il nostro mondo è frenetico ed effimero, fatto di super lavoro e super vacanza, di prestazione e lifting, per la vecchiaia non esiste più uno spazio né un tempo. Per il nonno non c’è più la stanza e nemmeno la pazienza, il nonno deve stare altrove, insieme ad altri nonni che sentono male, vedono male, non camminano e non sanno più andare in bagno da soli.
La paura della morte ha spinto la medicina talmente lontano che oramai qualunque qualità di vita è meglio del morire, purché sia una vita che non intralcia la nostra, salvo il momento della fine, quando finalmente possiamo piangere e dire “è stato meglio così”.
Ma i temi dell’accanimento terapeutico o del business della vecchiaia sono impopolari, chi mai parlerebbe a sfavore del prolungamento della vita o del nuovo miracolo imprenditoriale che crea posti di lavoro?
Dunque parleremo d’altro, se in questo mondo la vecchiaia e la morte non vengono accettate come parte della vita stessa, allora proveremo ad entrare nell’altro mondo, e all’interno di quel mondo parallelo cercheremo un modo per restituire ai vecchi un senso e una dignità.
Ogni età dovrebbe avere un ruolo naturale, una collocazione nella famiglia e nella comunità che garantisca rispetto e autostima. Ma se fino a una sessantina di anni fa il modello economico e sociale del nostro paese poteva ancora definirsi di tipo rurale, con famiglie allargate in grado di apprezzare e dare sostegno agli anziani, oggi la società industrializzata tende a valorizzare gli individui in base alla loro produttività, emarginando di fatto chi non riesce più a mantenere il passo. E se nel dopoguerra esistevano tre giovani per ogni anziano, nel 2020 si stima che vi saranno tre anziani per ogni giovane. Saremo in grado di assisterli, e come?
Per di più, l’allungamento della vita sta portando il fenomeno della demenza senile, in particolare quella di tipo Alzheimer, a livelli allarmanti, tanto da riportare prepotentemente l’attenzione della medicina al tema della “follia”, che nella vecchiaia si somma inevitabilmente ad altre patologie.
Il quadro sarebbe desolante, se il miracolo della vita non ci stupisse anche in questo caso, dando ai vecchi un’ultima possibilità.
Il morbo di Alzheimer e in generale ogni altro tipo di demenza senile si manifesta con il deterioramento cerebrale delle funzioni corticali, vale a dire delle capacità cognitive come l’uso della memoria, del linguaggio, l’orientamento spazio-temporale, il coordinamento motorio e la risoluzione di problemi astratti e quotidiani. Ma questo decadimento riguarda appunto la corteccia del cervello, quella deputata alle funzioni del pensiero, mentre il mondo delle emozioni resta immutato, anzi è spesso amplificato, è dunque un mondo di sentimenti svincolati dal controllo della ragione. Le emozioni vengono infatti gestite da un piccolo nucleo di materia grigia, l’amigdala (dal latino amygdala: mandorla) situato nella posizione centrale di ogni lobo, che ha la funzione di gestire gli istinti e le emozioni indispensabili alla sopravvivenza, come per esempio la paura. Sembra quasi che la natura voglia preservare il più possibile il centro vitale del cervello a scapito della corteccia, la zona esterna, riportandoci ad una dimensione infantile, libera dai condizionamenti di una vita intera. E non posso che domandarmi se questa condizione sia unicamente un handicap, o se invece sia anche una ricchezza, un’ultima risorsa.
Per ostacolare l’avanzamento della demenza, i tentativi terapeutici non farmacologici sono diversi e meritevoli, per esempio la Reality Orientation Therpy, il Memory Training, il Metodo Validation, e la Terapia Occupazionale, tecniche che utilizzano prevalentemente una comunicazione verbale, quindi cognitiva, e che tendono a potenziare le facoltà in declino. Nobili tentativi per prolungare il più possibile il contatto con la nostra realtà, ma che non tengono del tutto conto di una realtà diversa, quella dei dementi, una realtà forse comprensibile soltanto se siamo noi, noi che stiamo dall’altra parte, a penetrare.
Un malato di Alzheimer al terzo stadio, per esempio, potrebbe non essere più in grado di distinguere il giorno dalla notte, potrebbe parlare in modo incomprensibile, potrebbe avere crisi di panico e non ricordare quasi più nulla tranne qualche frammento tra i più remoti, ma sarà senz’altro in grado di ridere, piangere, avere paura o apprezzare una carezza, avrà ancora preferenze sensoriali visive, tattili, uditive, e potrà avere una propria gestualità, limitata, diversa, ma ancora funzionante, insomma, non più capacità di tipo logico, ma fortemente emotive.
E se tra i tanti linguaggi dell’uomo, ne esiste uno in grado di usare tutte queste facoltà insieme, non può che essere quello dell’arte. L’arte si nutre e dona emozioni, va dritta al cuore senza doverne riconoscere i codici, è libera, trasgressiva, illogica, giocosa. L’arte è una zona franca, praticabile e fruibile da chiunque, un linguaggio universale per giovani, vecchi, sani e malati.
Musica, danza, cinema, teatro, pittura, scultura, tutto ciò che l’uomo ha concepito per potersi esprimere creativamente può essere un ponte tra il nostro mondo e quello parallelo, quello che temiamo ma che dovremmo accettare, perché forse, un giorno, sarà il mondo in cui vivremo.
E così, a partire dalla terza età, il meritato riposo della pensione consente ai “giovani vecchi” di esplorare ed imparare le arti affollando corsi di ogni genere, ma è solo nella quarta età, l’età dei “veri vecchi”, che l’arte può diventare una benefica terapia.
E in quanto terapia non dovrebbe essere solo un’occupazione contro la noia, ma un vero e proprio strumento per trasformare la depressione, spesso il primo stadio della demenza, in interesse creativo ed espressione del mondo interiore. L’arte diventa terapeutica quando è rassicurante, divertente e non giudicante, quando viene condivisa dall’arte-terapeuta o dall’animatore geriatrico con profondo interesse e quando è il veicolo di una relazione che non è più solo assistenza ma la costruzione di un affetto.
Il mondo parallelo al nostro è popolato di vecchi in attesa di qualcosa, è nostra scelta e sensibilità fare in modo che quel qualcosa non sia solo la fine, ma un possibile dono che li riscatti.
Bibliografia essenziale:
- C.Salza, Arteterapia e Alzheimer, ed. Nodo libri, Como 2007
- G.Braidi G.Gelmini, La relazione come cura nell’assistenza geriatrica, Maggioli editore, RSM 2011
- M.Bizzotto, Vivere la terza età, Edizioni Studium, Roma 2011
- M.Imbriani G.Bazzini F.Franchignoni, Argomenti di terapia occupazionale, Aracne editrice, Roma 2011
- R.Franchini, La figura dell’animatore nelle strutture per anziani, ed. Franco Angeli, Milano 2011
Irma Fiorentini, titolare dello Studio d'Arte La goccia. Decoratrice, restauratrice e insegnante di pittura murale. Pittrice e docente di Pittura Filosofica presso la scuola Parresia di Bologna per consulenti filosofici. Vive e insegna a Monzuno, nella sua casa-studio sulle colline tosco-emiliane.