Vincenzo Rezzuti

Felicità

Hermann Hesse
Hermann Hesse

“Un mattino mi svegliai, un bambino vivace di circa dieci anni, con un senso del tutto inconsueto e incantevole di gioia e benessere, che come un sole interiore mi attraversava con i suoi raggi, come se proprio ora, in questo istante del risveglio da un buon sonno di ragazzino, fosse accaduto qualcosa di nuovo e meraviglioso, come se tutto il mio piccolo grande mondo fosse entrato in una nuova condizione e più alta, in una nuova luce, un nuovo clima, come se tutta la vita intera nella sua bellezza ora per la prima volta avesse ricevuto il suo pieno senso e il suo pieno valore. Non sapevo niente di ieri né di domani, ero avvolto e soavemente lambito da un felice oggi. Era una sensazione che faceva star bene e veniva assaporata dai sensi e dall’anima senza curiosità e senza calcolo, semplicemente mi attraversava, e aveva un meraviglioso sapore.” (Hermann Hesse, La felicità, traduzione Nicoletta Salomon)


Ci sono due diverse concezioni della felicità, che si possono sintetizzare in due parole. Una è fortemente occidentale, calvinista e americana, e proprio per questo è corretto chiamarla, con il suo termine inglese, Happiness. Happiness è il raggiungimento dei propri obiettivi, il coronamento dei sogni, e si ottiene con il sacrificio, il duro lavoro di chi persegue uno scopo e non concepisce altro modo per vivere. Il campione, l’uomo o la donna famosi, rappresentano questo ideale di felicità proiettata nel futuro. Il difetto di questa concezione sta nel proiettarsi della vita in un al di là che è un al di qua, ma che è anche un non ora, e che quando diventa ora (ora ci sono riuscito, ora sono arrivato a raggiungere tutto ciò che mi ero prefisso) pone fine al gioco. Happiness ha diversi modelli, adatti a tutte le taglie: negli anni cinquanta la felicità a portata di mano era ottenere un buon posto di lavoro, mettere su famiglia, comprare una bella casa e fare due o tre figli. Se la felicità di pochi eletti era ottenere onori e riconoscimenti, per la maggior parte era ottenere un successo più alla mano e più facile. Per gli uni e gli altri, si poneva e si pone, oggi con modelli leggermente cambiati, il problema del dopo. Che fare quando si ottiene ciò che si è desiderato? Spesso non appare più così desiderabile, e il gioco ha di nuovo inizio, con altri obiettivi, salvo che non subentri la delusione e soprattutto la disillusione. 

La seconda concezione è più universale, ben radicata nelle culture orientali ma anche nell’occidente precalvinista. C’è un termine tedesco molto bello, con cui Hermann Hesse ha chiamato un suo breve saggio, che già dal suono rende bene la differenza con Happiness. Questo termine è Glück, che significa, appunto, felicità, ma che denota un senso completamente differente. Glück è la contemplazione della bellezza, del momento perfetto, né al di là né al di qua, la sospensione del tempo e della rincorsa. Esperienza per alcuni mistica e per altri immanente alla vita stessa, che può accadere sia a chi ha tutte le fortune che ai reietti e ai diseredati. Momento che non è momento, periodo indefinibile perché interruzione del fluire, può avvenire contemplando un quadro, un paesaggio, una luce particolare, un uomo o una donna, e in fin dei conti qualsiasi cosa, anche l’infimo sul quale cade il raggio divino. Glück non ha bisogno di oggi o di domani, non fa i conti con le ambizioni e con le relazioni, è fuori dal tempo ma non dalla vita, è la vita stessa alla massima potenza, è la comprensione dell’assurdità profonda della nostra ricerca, quando tutto è già disponibile, qui e ora.

Appunti di Viaggio

Quanto è dovuta, la bellezza dell’Europa, alla follia e alla megalomania degli uomini che l’hanno governata? Fernando II di Portogallo, il cui nome completo era Fernando Augusto Francisco António de Saxe-Coburgo-Gota-Koháry, prezioso incrocio di grandi famiglie della nobiltà europea, regnò assieme alla moglie Maria II di Portogallo, il cui nome completo era Maria da Glória Joana Carlota Leopoldina da Cruz Francisca Xavier de Paula Isidora Micaela Gabriela Rafaela Gonzaga de Bragança e Habsburgo. Lei era la regina, lui divenne re consorte, grazie al matrimonio. La politica lo annoiava profondamente, così dedicò la sua vita all’arte. La sua grande opera, ideata assieme al non meno folle architetto Wilhelm Ludwig von Eschwege, fu il Palacio da Pena, un castello che sembrerebbe uscito dalla fantasia di Walt Disney, non fosse che Disney sarebbe nato solo nel 1901, mentre la costruzione fu terminata nel 1885, proprio l’anno in cui il re visionario morì. Non so se sia colpa di Disney, ma la prima cosa che ho provato vedendo il Palacio è un leggero senso di nausea, come quando si mangia un cibo molto saporito, ma troppo ricco di grassi. Forse l’immaginazione di Fernando mi è fin troppo familiare, a causa di Disney, e più non la sopporto, oppure è di per sé nauseante.

Attenzione però a non lasciarsi abbagliare da ciò che riluce troppo. Il fascino tracotante dell’architettura del Palacio da Pena nasconde il vero capolavoro, che è il grande giardino che lo circonda. 
Il castello, o palazzo, sorge nei pressi di una graziosa cittadina portoghese, Sintra, non molto lontana da Lisbona. A Sintra ci si può fermare accanto agli scalini d’ingresso di una casa, o sotto una volta, e pensare a quanto semplice possa essere la bellezza, cosa che non si riesce a fare al Palacio da Pena.

Le botteghe color cannella

“In quei giorni remoti avemmo per la prima volta, i miei compagni ed io, quell’idea impossibile e assurda di spingerci ancora più in là, oltre la stazione termale, in una regione ormai di nessuno e divina, nella terra di confine controversa e neutrale, dove si perdevano le frontiere tra gli stati e la rosa dei venti ruotava smarrita sotto un cielo alto e stratificato. Là volevamo trincerarci, renderci indipendenti dagli adulti, uscire completamente dall’ambito della loro sfera, proclamare la repubblica dei giovani. Qui dovevamo costituire una legislazione nuova e indipendente, innalzare una nuova gerarchia di misure e di valori. Doveva essere una vita all’insegna della poesia e dell’avventura, di incessanti illuminazioni e stupori. Ci pareva che bastasse solo togliere di mezzo le barriere e i limiti delle convenienze, gli antichi alvei in cui era contenuto il corso delle faccende umane, e nella nostra vita avrebbe fatto irruzione l’elemento vitale, la grande ondata dell’imprevisto, un’alluvione di avventure e intrecci romantici.” (Bruno Schulz, La repubblica dei sogni, traduzione Andrzej Zielinski)

Questo è un consiglio, serio, di lettura. Di solito non mi piace darne, ognuno deve trovare i suoi scrittori, perché i criteri di scelta non sono uguali per tutti, e non si possono fare classifiche di bravura, genialità o sciocchezze simili. Ogni voce, nel mare della carta rilegata, può avere la sua dignità e importanza, almeno per qualcuno. Voglio fare però un’eccezione. E’ che ci sono scrittori che hanno avuto poca fama e che sono stati parzialmente dimenticati, che hanno un loro piccolo pubblico di lettori appassionati, ma che restano ai più sconosciuti perché, si sa, così va il mondo dell’editoria. Tempo fa parlai di Fenoglio, un esempio italiano di scrittore sempre ai limiti della fama, e per altro solo dopo morto. Ora vorrei parlare di Bruno Schulz, uno scrittore polacco, solo in parte riscoperto dopo che David Grossman ne ha parlato in “Vedi alla voce amore”. Alcuni l’hanno paragonato a Kafka, non senza ragioni, ma il raffronto sembra troppo facile, data la comune cultura ebraica.
 

Certo l’immaginazione onirica ha le stesse radici, ma è anche profondamente diversa. Nell’opera di Kafka l’immagine è sempre in funzione del significato, in Schulz no, è gioco crudele e nello stesso tempo comico, all’interno di uno stile superbo, unico. Leggere “Le botteghe color cannella” è un’esperienza paragonabile a poche altre, a condizioni che ci si lasci andare ai suoi virtuosismi verbali, e che si cerchi di vedere con i suoi occhi di pittore. In Kafka domina un principio morale tirannico, ma in fondo condiviso dallo scrittore. Schulz è invece timidamente anarchico, come il bizzarro e amatissimo padre, commerciante allevatore d’uccelli, di cui parla in buona parte dei suoi racconti. Schulz supera l’apparenza delle cose e anche quella del sogno, arriva ai punti fondanti e li colora di parole inimmaginabili. Ha la capacità degli scrittori destinati a morire presto (lui per mano di un ufficiale delle SS) di comprendere non solo il proprio destino, ma anche quello di chi verrà dopo.

“Oltre ai valori ufficiali che riconosciamo e ammettiamo, si cela una certa non ufficiale, ma potente congiura, un sistema inafferrabile e sotterraneo – cinico e amorale, irrazionale e beffardo. Questo sistema (in quanto possiede appieno le caratteristiche di un sistema logico) conferisce la sua sanzione all’infedeltà della donna perversa, istituisce gerarchie paradossali, concede forza schiacciante alla bassa facezia, ci serra sotto il potere del riso solidale contro la nostra volontà e il nostro sapere. Questo sistema inafferrabile, non localizzato in alcun luogo, che in certo modo penetra intermolecolarmente le nostre valutazioni, che si sottrae alla responsabilità e sfugge ai tentativi di collocarlo e fissarlo – infausto e poco serio, che uccide con la potente arma del ridicolo – è in fondo un fenomeno inquietante e singolare. Non so se qualcuno sia immune dal suo fascino.” (Bruno Schulz, A Witold Gombrowicz, traduzione Andrzej Zielinski)

 

Ulisse

“Un giorno il viandante sbatté una porta dietro di sé, si arrestò e pianse. Poi disse: ‘Questa inclinazione, questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente, il certo mi fanno rabbia! Perché questo battitore fosco e impetuoso segue proprio me? Vorrei riposarmi, ma non me lo concede. Quante sono le cose che mi seducono all’indugio! Per me ovunque vi sono giardini d’Armida: e quindi sempre nuove lacerazioni e nuove amarezze del cuore. Devo muovere ancora in avanti il piede, questo stanco piede ferito: e poiché devo, ho spesso per le più belle cose che non mi seppero trattenere uno sguardo irato – giacché non mi seppero trattenere.’ “ (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, traduzione Ferruccio Masini).

La condanna a vagare inseguendo impegni e doveri, obiettivi e promesse, ci accomuna con il destino di Ulisse. Passiamo attraverso la vita, senza riuscire a fermarci, come se fossimo spinti da un vento che non possiamo governare. L'aforisma di Nietzsche, intitolato enigmaticamente “Dalla settima solitudine”, illumina questa situazione come una folgore che cada in una notte oscura. Tutto è evidente, anche la nostra incapacità di cambiare, perché il destino di Ulisse fa parte della nostra stessa natura. Ciò che ci spinge, siamo in realtà sempre noi stessi, la nostra voglia di andare quando pure abbiamo di fronte qualcosa che vorremmo contemplare per sempre. Il viandante e il battitore sono, infatti, la stessa persona, ma è il secondo che comanda: come il padre di Kafka, è il principio di autorità interiorizzato, il senso del dovere che ci costringe all’insoddisfazione. Chissà se i giardini di Armida esistono veramente: noi li scorgiamo in lontananza, e ogni volta diciamo che domani ci fermeremo, ma non oggi, perché abbiamo qualcosa da completare, un lavoro, un progetto, o abbiamo promesso qualcosa a qualcuno, e non possiamo tradire la sua fiducia in noi. Forse è una scusa: il battitore ci vuole preservare da una delusione fatale, perché la bellezza che ci lasciamo alle spalle è solo illusione. E se invece questo fosse solo ciò che crede il battitore, lo spirito logico che non è in grado di comprendere la realtà che sta oltre le parole?


Vincenzo Rezzuti, novarese di nascita e bolognese di adozione, fa della scelta dell’eclettismo culturale una filosofia di vita. Informatico e project manager per mestiere, giocatore di scacchi, scrittore e poeta, pensa che per contrastare l’orbo pensiero specialistico occorra occuparsi di tutto, senza avere paura del proprio dilettantismo. Per SeBook ha recentemente pubblicato il romanzo “Gli errori di un samurai”. Altre sue opere sono un volume di racconti, “Chi parla troppo”, e due raccolte poetiche, “Poesie del re sottile” e “Del corpo, per il corpo”. In rete è presente con alcune opere web e con un blog filosofico – letterario (http://pensierinidellabuonanotte.wordpress.com).