Vincenzo Rezzuti

L'ombra ribelle e la gatta innamorata

“E a dir vero, come su quei calendari che il postino ci porta per aver le strenne, non c’era stato un solo anno della mia vita che non avesse recato, nel frontespizio o intercalata nei suoi giorni, l’immagine di una donna da me desiderata; immagine, spesso, tanto più arbitraria in quanto, a volte, quella donna non l’avevo mai vista: come, per esempio, la cameriera della signora Putbus …”(Marcel Proust, Il tempo ritrovato, traduzione Giorgio Caproni)

Bella come una donna dipinta dal Giorgione, così la descrive l’amico Saint-Loup, e dedita al piacere con uomini e donne. La cameriera della baronessa Putbus è un fantasma che percorre tutta la Recherche. Inizialmente pare che Proust intendesse farne un personaggio “vivente” della sua opera, ma poi decise di eliminarne la presenza, per consentirle di incarnare l’idea del desiderio. Così come l’omissione narra a volte più di una pedante descrizione, l’assenza crea il mito. Ed è forse questo il senso di uno stratagemma letterario raffinato e perfido: congiungere il desiderio e il mito, mostrare come spesso coincidano.
La biondissima cameriera non viene mai trovata, il protagonista ne sfiora soltanto il passaggio, a Parigi come a Balbec o a Venezia. La sua irrealtà è necessaria per preservare il sogno, la realizzazione del desiderio porterebbe, infatti, all’inevitabile disillusione, alla distruzione del mito e alla ricerca di un nuovo idolo. Simbolo di un paradiso erotico e amoroso irraggiungibile, dove la dolorosa realtà della gelosia e della sofferenza è sospesa, dove il corpo è sempre glorioso e la noia è sconosciuta.

Chi sono... pensierini della buonanotte

Bertrand_Russell_1950Coloro che si vantano di essere ciò che vien detto ‘gente pratica’ sono per lo più persone esclusivamente preoccupate dei mezzi. Ma la loro saggezza è solo una metà della saggezza. Quando teniamo conto dell’altra metà, che si preoccupa dei fini, il processo economico e la vita umana tutta quanta assumono un aspetto interamente nuovo. Non domanderemo più: che cosa hanno prodotto i produttori, e il consumo, che cosa ha consentito che i consumatori, a loro volta, producessero?Domanderemo invece: che cosa c’è stato, nella vita dei consumatori e dei produttori, che li ha fatti contenti di essere vivi? Che cosa hanno sentito, o conosciuto, o fatto, che potesse giustificare la loro creazione? Hanno goduto la luminosa sensazione di una nuova conoscenza? Hanno conosciuto l’amore e l’amicizia? Hanno goduto lo splendore del sole, la primavera e il profumo dei fiori?” (Bertrand Russell, Autorità e individuo, traduzione Camillo Pellizzi)

Dovremmo, una buona volta, deciderci a farlo. E’ una questione che riguarda tutti, che va al di là dei confini nazionali, che richiede un po’ di quella passione che sembra essere morta prima della fine del novecento. C’è un pensiero dominante che ci sottomette alle cosiddette leggi del libero mercato. Che fa sì che chi non produce non abbia il diritto di esistere, se non come relitto, reietto da assistere, ma con sempre meno risorse. Che valuta le persone su base numerica, valore realizzato, che siano patate raccolte nell’unità di tempo o righe di codice scritte o contratti conclusi. Valutazioni quasi inevitabili, nel mondo del lavoro, ma che diventano ossessive, condizionando la vita intera. Tendiamo a identificare il valore delle persone con il denaro che guadagnano. Siamo in trappola. Non c’è più posto per la poesia, al massimo può essere il serale passatempo di uno sfogo lirico. Non c’è più posto per gli artisti che non vogliono essere dei semplici produttori. Un’opera come “L’Ulisse” di Joyce è oggi inimmaginabile. Anche “La ricerca del tempo perduto” di Proust, o “L’urlo e il furore” di Faulkner, tanto per fare esempi, non potrebbero più essere scritti, e comunque difficilmente sarebbero pubblicati, perché anche i lettori non hanno più tempo. Hanno bisogno di letture rapide, adeguate a un viaggio in treno o in autobus, o da esaurirsi nei quindici giorni di una vacanza. Non esistono più lettori oziosi.
Dicevo, dovremmo farlo, perché se la cosa riguarda tutti, ed è una sorta di “affatturamento generale” come diceva Antonin Artaud, allora a tutti tocca prendere in mano la situazione. Iniziamo a dirlo, in ogni situazione e luogo, che il business non può essere uno scopo dignitoso. Che lo scopo di un editore è pubblicare libri che valga la pena leggere, non guadagnare denaro, perché il denaro è solo un mezzo. Che lo scopo di un medico è curare le persone, e quello di un cuoco è cucinare cose che valga la pena di mangiare. Che una persona che voglia vivere, almeno per un po’, senza produrre alcunché, deve poterlo fare, rinunciando certo a tante agiatezze, ma senza essere costretto a una vita da randagio. E diciamo a tutti, e anche a noi stessi, che per vivere può bastare poco, e che tante cose che crediamo necessarie sono in realtà inutili. Smettiamo di considerarci dei consumatori. I lombrichi sono dei consumatori, di terra. Noi forse siamo qualcosa di più.

Vincenzo Rezzuti, novarese di nascita e bolognese di adozione, fa della scelta dell’eclettismo culturale una filosofia di vita. Informatico e project manager per mestiere, giocatore di scacchi, scrittore e poeta, pensa che per contrastare l’orbo pensiero specialistico occorra occuparsi di tutto, senza avere paura del proprio dilettantismo. Per SeBook ha recentemente pubblicato il romanzo “Gli errori di un samurai”. Altre sue opere sono un volume di racconti, “Chi parla troppo”, e due raccolte poetiche, “Poesie del re sottile” e “Del corpo, per il corpo”. In rete è presente con alcune opere web e con un blog filosofico – letterario (http://pensierinidellabuonanotte.wordpress.com).