Archeologia personale - 6
Archeologia personale – 6
Ho acquistato questa pipa nel 1975, quando avevo diciassette anni. Fu comprata con il denaro del mio primo compenso (non era uno stipendio, perché lavoravo a percentuale sui contratti realizzati). Come tutti gli oggetti che sopravvivono agli anni, passando di casa in casa attraverso amori, separazioni e nuove stagioni della vita, è carica di affetto. E’ una parte di me, certo non essenziale, ma importante nel suo essere elemento archeologico di una storia: la mia, che come quella di tutti gli altri esseri umani non è fatta di elementi intercambiabili, soggetti a obsolescenza programmata. Ognuno degli oggetti che caratterizzano una vita è unico e insostituibile. Poco importa il loro valore commerciale: direi anzi che nell’ambito di una storia individuale qualsiasi discorso sul valore oggettivo sia inappropriato. Questi oggetti non sono un patrimonio da mettere in un’eredità, non sono destinati a finire in un’asta di Sotheby. Hanno un valore immenso che si esaurisce nell’ambito nel quale hanno vissuto. Al di fuori di questo non sono distinguibili dai miliardi di altri oggetti che popolano le case del mondo, ricche o povere che siano. Parlano di noi, ma solo a noi e alle poche persone che ci hanno conosciuto, e che conoscevano questi oggetti sapendo che erano parti di noi.
Allora c’erano altri tabacchi, dai nomi ormai mitici, come Balkan Sobranie, John Cotton’s, Four Square. Tabacchi ora scomparsi per fare posto a prodotti maggiormente industriali, ma che continuano a rimanere nell’aroma della pipa, avendone impregnato il legno, così come un evento della nostra infanzia, pur lontano nel tempo, influisce ancora sulla nostra vita.
La scelta di conservare le cose significative della propria vita è una piccola forma di resistenza al ricambio programmato degli oggetti e all’obbligo di consumare (ricatto di un’economia che ci fornisce un precario e anaffettivo benessere).
Dora Bruder
“Si dice che se non altro i luoghi serbano una lieve impronta delle persone che li hanno abitati. Impronta: segno incavato o in rilievo. Per Ernest o Cècile Bruder, per Dora, dirò: incavato. Ho provato una sensazione di assenza e di vuoto ogni volta che mi sono trovato in un posto in cui avevano vissuto.” (Patrick Modiano, Dora Bruder, traduzione Francesco Bruno)
Ci sono domande che, non avendo risposta, seguono il corso della storia e, più che farne parte, la contengono. Sono domande essenziali, il cui senso è talmente palese che tutti lo comprendono. Nel caso di Dora Bruder, il non-romanzo di Patrick Modiano del 1997, la domanda è: “Che cosa resta?” E’ una domanda universale, che tutti, a qualsiasi cultura, religione e ceto sociale appartengano, non possono evitare. E’ conseguenza obbligata della nostra situazione esistenziale. Una domanda che genera angoscia, perché alla risposta ovvia (“nulla” verrebbe da dire, se non si crede in qualche dottrina salvifica) si contrappone la consapevolezza, quando muore un proprio caro, che invece qualcosa resta, ma non si sa cos’è. Non è semplicemente la memoria. E’ come lo spazio vuoto lasciato da un fossile nella roccia.
Un’impronta, dice Modiano, ed è vero anche per la sconosciuta Dora. La storia di una persona può essere ricostruita attraverso le tracce che ha lasciato di sé. Attraverso i vuoti che ne testimoniano l’assenza. Un’opera di restituzione che non può che fermarsi su un limite invalicabile. “Dora Bruder” è un piccolo, grandissimo libro, che si muove incerto su questo confine nebbioso.
I cari ricordi
“I fama, per non perdere i loro cari ricordi seguono il metodo dell’imbalsamazione: dopo aver fissato il ricordo con capelli e due parole, lo avvolgono in un lenzuolo nero e lo sistemano rigido contro la parete del salotto, con un cartellino che dice: ‘Gita a Quilmes’, oppure: ‘Frank Sinatra’.
“I cronopios invece, questi esseri disordinati e caldi, sparpagliano i ricordi per la casa, allegri e contenti, e ci vivono in mezzo e quando un ricordo passa di corsa gli fanno una carezza e gli dicono affettuosi: ‘Non farti male, sai’, e anche: ‘Stai attento, c’è uno scalino’.
“Questa è la ragione per la quale le case dei fama sono in ordine e in silenzio, mentre le case dei cronopios son sempre sottosopra e han porte che sbatacchiano. I vicini si lamentano sempre dei cronopios e i fama scuotono la testa comprensivi, e vanno a vedere se i cartellini sono sempre al loro posto.”
(Julio Cortàzar, I cari ricordi, in “Storie di cronopios e di famas”, traduzione Flaviarosa Nicoletti Rossini)
La storia è l’insieme degli eventi accaduti. Le si attribuiscono significati e fini, ma niente di ciò è vero. Nemmeno quando è la storia di un singolo individuo. A che serve cercare coerenza là dove non può esistere? La volontà di coerenza, che forse è la vera e unica volontà di potenza umana, è legata a un momento, a uno stato d’animo del soggetto, svanisce giorno per giorno ed eventualmente rinasce, ma non è più la stessa (si vuole ancora essere coerenti, ma si è cambiati, e la coerenza che si persegue è incoerente rispetto alla precedente). Allora si cercano scuse: si parla di sviluppo, o di evoluzione. “In gioventù feci ciò che ora disapprovo, però mi è servito per progredire, perché dagli errori s’impara”. Ipocrisie della pietà verso se stessi. Quel giovane agiva seguendo la propria natura, che non era né meglio né peggio della tua natura attuale. Obbediva a principi interiori che non erano meno validi dei tuoi attuali. Ora dici di essere migliorato: ma quel ragazzo che viveva allora, ti avesse visto come sei adesso, non sarebbe inorridito pensando a come sarebbe diventato?